Delocalizziamo i giornalisti


foto di lallart_71

Ogni attività in Italia è stata delocalizzata, dall’auto alla macchina per il caffè, dalle calze alle componenti elettroniche, tranne i giornali. La produzione delle balle di regime è rimasta sul nostro suolo al 100%, direttori, redattori, giornalisti. Gli editori dei quotidiani, si sa, sono virtualmente falliti e per sopravvivere hanno chiesto e ottenuto dai partiti 329 milioni di euro inseriti nella Finanziaria. L’editoria assistita è la stessa che loda globalizzazione e mercati e riceve in cambio milioni di euro dallo Stato, come il Sole24Ore della Confindustria. Un giornale, una faccia, Riotta, un’editrice di riferimento, Emma Marcegaglia, e una perdita di 52,6 milioni nel 2009 con un 2010 in rosso annunciato. Il calo delle entrate pubblicitarie per i quotidiani è costante, dal 2008 è sceso in media del 40%, le copie vendute sono sempre di meno con la diffusione di Internet. Un’azienda normale che produce caschi o penne, cambierebbe l’offerta, taglierebbe i costi o getterebbe la spugna. I giornali non hanno di questi problemi. La voce del padrone non teme la crisi. I sussidi di Stato sottratti alla Sanità e alla Scuola ci consentono di leggere le opinioni di Belpietro su Libero (una Onlus!), di Ferrara sul Foglio, di Polito sul Riformista, ma anche di giganti del pensiero come Scalfari. Se si è interessati a un’opinione è lecito pagarla, ma essere tassato per leggere l’opinione di un pennivendolo a servizio dei partiti o delle lobby è un atto contro natura. I servi se li paghino i padroni, se non ci riescono delocalizzino la produzione in Cina o in Romania.