La saga di Twitter è per il business o il free speech?

Non è da tutti i giorni avere un miliardario che acquista un social media già affermato.
Il 26 ottobre è entrato con un lavandino in mano (per il meme “let that sink in” che gioca sulle parole di lavandino e il concetto di far entrare un concetto in testa). Il giorno dopo ha twittato “The bird is freed”, per annunciare una nuova epoca del social media.

Nella confusione generata qualche burlone o incompetente è riuscito a veicolare una richiesta a tutti gli sviluppatori di Twitter di stampare tutto il codice della piattaforma su risme di carta perché Musk potesse revisionarlo. Le stampanti sono andate a pieno ritmo per un giorno intero fino al contrordine.

E’ poi partito il piano di Musk: riduzione di metà del personale, riduzione di metà dei costi operativi e introduzione di un modello di reddito aggiuntivo, il blue tick a pagamento (che sembrerebbe già essere in attesa di essere sbloccato come aggiornamento sui marketplace delle app).

Quello che tutti si stanno chiedendo è perché un uomo che è sempre stato incentrato sul business abbia deciso di spendere $44 miliardi (una nostra legge di bilancio per lo Stato Italia) per comprare una società che dal punto di vista economico non è più in crescita? Musk sta facendo di tutto per dimostrare che lo fa per business e se riuscirà a rimettere in sesto i conti nel giro di un semestre avrà raggiunto il suo obiettivo.

Il sospetto è che Musk sia da sempre contrario alle policy di censura di Twitter soprattutto nei confronti dell’area repubblicana statunitense che non vuole sia sfavorita nelle prossime presidenziali e per questo spesso ha parlato di una battaglia per il Right of Free Speech.

Ma la libertà di parola online è proprio uno di quei diritti di cittadinanza digitale che dobbiamo ancora regolare e forse anche capire. Da una parte dobbiamo chiederci se debba tradursi in un Right of Reach automaticamente, ovvero nella possibilità di essere amplificato a prescindere dal messaggio o da chi parla; dall’altra però dobbiamo anche chiarire chi dovrebbe essere in grado di decidere quali limitazioni di parola o di amplificazione un individuo dovrebbe avere.

Se una persona è stata condannata dal tribunale per diffamazione forse basterebbe per un social media di decidere di inibirgli per un certo tempo l’accesso all’amplificazione (con questo metodo diversi direttori di quotidiani italiani e i loro giornali di tutti gli schieramenti verrebbero limitati), dall’altra parte se quel tribunale fa parte di uno Stato che reputiamo illiberale dovremmo violare la regola che ci siamo dati?

La soluzione non è semplice, ma certo non può passare dal dare tutto il potere decisionale a pochi singoli soggetti privati che possono cancellare la voce anche di un politico eletto per crimini non (ancora) sanzionati da nessuna corte. L’esempio più eclatante in questo caso è Trump, un presidente degli Stati Uniti che ha raccolto quasi metà dei voti degli statunitensi e al contempo bannato a vita da Twitter per un crimine non (ancora) sanzionato da nessuna corte. Per quanto pazze possano essere le sue parole a chi compete decidere che non debba essere possibile ascoltarle? Lo stesso vale per molti altri account di altri pensieri politici come ad esempio l’account di supporto di Assange 

Se il tema economico potrà essere risolto nel modo più classico con tagli di costi e nuovi ricavi, l’arcano del free speech in una oligarchia digitale dei social media è il vero tema che Musk dovrà risolvere mantenendo una qualità dei contenuti alta per incentivare un continuo ritorno su Twitter (es. nel 2016 Disney decise di non acquistare Twitter per il troppo hate speech).