Il reddito di cittadinanza è servito. E lo dico da volontario di un centro d’ascolto

L’articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano” a firma di Mariano Turigliatto:

“Non so proprio come pagare la bolletta, stanno per togliermi la corrente”, “I miei figli hanno bisogno di materiale scolastico e trasporti, che il Comune non mi aiuta più, dicono che hanno finito i soldi”. “Trent’anni in una grande azienda, poi ha chiuso. Finiti gli ammortizzatori sociali e pure i risparmi. L’amministratore della casa che possiedo mi ha fatto scrivere dall’avvocato. Se non pago, me la pignorano, così oltre che senza soldi, saremo anche senza tetto”.

Sono alcune tra le più frequenti richieste d’aiuto con cui si confrontano i volontari e gli operatori di un centro d’ascolto che spende una parte significativa dell’8 per mille in attività di sostegno a situazioni “estreme”.

Parecchi arrivano al centro d’ascolto su indicazione dei servizi sociali, impegnati sempre più solo in attività di smistamento clienti: visto che le risorse a disposizione scarseggiano, i Comuni potrebbero riconvertire il personale in attività di accompagnamento e tutoraggio. Una moderna interpretazione dei servizi sociali.

C’è chi ci prova, ma sono ancora troppi gli enti che non affrontano la questione della riconversione del personale e dei servizi. Ci vogliono idee, progetti, volontà e capacità. Strumenti a disposizione dei volontari del centro d’ascolto per valutare i casi: intuizione personale, esame dell’Isee, documentazione sanitaria o economica.

Da un po’ si è avvertito forte l’impatto del reddito di cittadinanza: per l’istruttoria, che l’Inps ha compiuto e compie per tutti quelli che l’hanno richiesto, e per l’erogazione dell’ammontare mensile. I volontari chiedono sempre l’estratto conto del rdc e, se gli utenti non ce l’hanno, li inviano a un Caf perché provvedano; i benefici vengono sospesi in attesa della regolarizzazione. Se la persona non ritorna, spesso è perché non l’aveva raccontata giusta. Anche così si liberano risorse, prima destinate a interventi-tampone, a favore di misure più risolutive, come le borse-lavoro e i tirocini nelle imprese.

In genere, chi non ha il rdc non voleva dichiarare redditi e proprietà che ne avrebbero impedito l’erogazione, analogamente chi percepisce un rdc molto basso, coccolato dai mass media per dimostrarne l’inutilità, come ci ricordava Domenico De Masi venerdì 10 scorso sulle colonne de Il Fatto Quotidiano.

Al netto degli errori Inps, i redditi a cui si fa riferimento nel determinare il rdc sono quelli di due anni prima, quando magari l’interessato aveva lavorato per un po’. Si rimedia alla decurtazione del rdc con l’Isee corrente e si ripresenta domanda, i volontari lo spiegano a quelli che non lo sanno. La gran parte degli utenti, comunque, il rdc ce l’ha. Chi prima chiedeva aiuto scusandosi e vergognandosi dello stato di necessità, adesso è affrancato dall’emergenza quotidiana. Continua a cercare lavoro e a volte lo trova, così riprende una vita dignitosa e poco dipendente dagli aiuti esterni: al centro non viene più.

Chi vive da sempre barcamenandosi nell’assistenza – pubblica e privata – fra sussidi, contributi, aiuti, continua a farlo. Costa come prima alla collettività perché il suo rdc sostituisce le somme e il sostegno che ha ricevuto sotto varie forme, al netto del personale addetto a tutta quella che resta della macchina dell’assistenza pubblica, ora da riconvertire per adeguare la rete dei servizi alle mutate condizioni generali.

Qualcuno fa il furbo: c’è chi ci prova e spera di farla franca, proprio come ha sempre fatto, in sintonia con altri beneficiari di incentivi, esenzioni e facilitazioni. Imprenditori e prenditori che nel corso degli anni hanno usufruito di notevoli “redditi di cittadinanza” a spese della collettività. Dovevano servire a creare lavoro, a innovare: qualche volta è anche successo, ma quante truffe e baruffe, quanti soldi finiti in fondi e attività improduttive.

Eppure nessun esperto, politico, giornalista ha osato reclamare la fine delle misure a sostegno dell’impresa. Al massimo controlli più stretti e sanzioni più ficcanti. Come se a una parte della popolazione i benefici fossero dovuti e a un’altra no.

Anche su questo riflette un volontario – preoccupato dell’impoverimento del ceto medio, consapevole che, quando la diseguaglianza produce disperazione, la rivolta è prossima – mentre ascolta persone in difficoltà in un centro d’ascolto confessionale che sostiene sia chi ha bisogno di una mano per ripartire sia chi non riuscirà mai a emanciparsi, ma a cui finalmente si è cominciato a garantire la sopravvivenza. Quasi come alle banche fraudolente.