Superare la cultura dell’usa e getta. Quando i media fanno la differenza

I rifiuti plastici sono ormai una patata bollente globale che rimbalza di nazione in nazione. La plastica americana finisce nei paesi del Sud-Est asiatico, quella italiana in Turchia. La Malesia stenta a riciclare la propria spazzatura, ma continua a importarla da altri Stati. Spazzatura che inquina, mette a repentaglio la nostra salute e per giunta nutre il malaffare mondiale. Tutto questo rimbalza sulle nostre pagine social e sui media grazie al lavoro di attivisti ambientali, scienziati e giornalisti. Il ruolo dell’informazione è stato dunque centrale in quella che potremmo definire “presa di coscienza globale”.

Pochi giorni fa, ad esempio, Greenpeace ha scoperto in Turchia un sito illegale di stoccaggio di plastica  proveniente dall’Italia. Fotografie choc che fanno riflettere: un’etichetta accartocciata di detersivo, una confezione di caffè e una busta di cibo pronto di marchi noti, il tutto in un deposito abbandonato vicino Smirne. Quei rifiuti sono i nostri, ma come ci sono finiti? Com’è possibile che la plastica americana arrivi fino a un villaggio nel Sud-Est asiatico? E la nostra in Turchia?

Secondo il rapporto “Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica” (disponibile qui il report), l’anno scorso l’Italia si è collocata all’undicesimo posto tra i maggiori Paesi esportatori di rifiuti in plastica in tutto il mondo, con circa 200mila tonnellate, pari a 445 Boeing 747 a pieno carico, passeggeri compresi. Tra le principali destinazioni della nostra spazzatura ci sono nazioni europee come Austria, Germania, Spagna, Slovenia e Romania, ma non solo. La meta più “ambita” è diventata proprio il Sud-Est asiatico dopo lo stop sull’importazione di rifiuti in plastica introdotto dalla Cina nel 2018, che ha spianato la strada a nuove rotte commerciali. Un effetto domino devastante per via del quale solo l’anno scorso la Malesia ha registrato un aumento di importazioni del 195,4 per cento e la Turchia del 191,5.

Parliamo di Stati che non riescono neanche a riciclare la propria spazzatura, spesso scaricata illegalmente o messa a giacere in discariche inadeguate a cui si affida il compito di smaltire anche quella degli altri.

Secondo uno studio guidato dall’Università della Georgia, la Malesia gestisce in modo sbagliato il 55%. dei propri rifiuti plastici, mentre in Indonesia e in Vietnam la percentuale sale all’ 81% e all’ 86%. Numeri che parlano da soli. Tra Europa e America non c’è grande differenza. Un recente filone d’inchiesta del Guardian intitolato “United States of Plastic” ci dice che anche gli Stati Uniti trasportano più di un milione di tonnellate l’anno di rifiuti plastici, verso luoghi lontani, già sommersi dalla spazzatura. Nuovi hotspot in alcune delle nazioni più povere del mondo, come il Bangladesh, l’Etiopia e il Senegal, che sono pronte ad accogliere tonnellate di plastica, forti di una forza lavoro economica e regolamenti ambientali meno rigidi.

La gente non sa dove finisce la propria spazzatura. – dichiara al Guardian Andrew Spicer, che insegna Responsabilità Sociale all’Università del South Carolina e presiede nel Consiglio dello Stato – Per le corporazioni del riciclaggio è solo un modo per fare soldi. Non ci sono regole globali, solo un immenso, sporco mercato che consente ad alcune compagnia di sfruttare un mondo senza regole”.

Sono tanti i media che hanno puntato i riflettori sull’invasione della plastica a livello globale e tanti sono i linguaggi con cui ciò è avvenuto. Ancora il Guardian, ad esempio, ha fatto ricorso alla matita di Susie Cagle, giornalista e fumettista, per descrivere il fenomeno: significativo il titolo del fumetto: “Gli esseri umani hanno prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica dal 1950. Questa è la storia illustrata di dove è andata a finire”.

Un altro esempio di linguaggio efficace? Guardate quest’infografica animata sulla produzione di bottiglie di plastica delle Reuters: un ottimo strumento per “dimensionare” il problema. E poi c’è il profluvio di documentari che da oltre dieci anni invadono i nostri schermi per raccontare i mille risvolti di questa invasione, da Addicted to Plastic al più recente A Plastic Ocean, solo per citare qualche titolo.

Nonostante la portata enorme della crisi globale e la sua conseguente gravità, non tutti i media italiani affrontano con la dovuta attenzione la questione. Eppure la direttiva europea 2019/904 ha bandito posate e stoviglie usa e getta dal 2021 e il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha aderito alla campagna “Plastic free” lanciata dal Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, impegnandosi a praticare e diffondere la regola delle “4 R”: riduci, riutilizza, ricicla e recupera. I giornalisti di Giornale RadioRai e Radio1 hanno lanciato sui social una campagna per liberare l’azienda dalla plastica con una lettera indirizzata all’amministrazione, mentre già dal 2017 Sky, per volontà del l’ad del gruppo Jeremy Darroch, ha deciso di essere plastic free eliminando la plastica da petrolio anche dal packaging dei suoi apparecchi. Sul fronte dell’informazione, i Tg della tv pubblica e delle reti private fanno segnare un incremento di spazi dedicati al tema, così come – nel tempo – hanno fatto approfondimenti trasmissioni come Report, Le Iene, i quotidiani nazionali e le testate specializzate.

Insomma i riflettori sono accesi, le soluzioni alternative ci sono: grazie all’alleanza tra attivismo, scienza e media la cultura della riduzione e del riciclo dei rifiuti prenderà presto il posto di quella dell’usa e getta.


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