Ultimo regalo del Pd: 1.800 licenziati

di Franco Bechis

Ieri mattina gran parte dei lavoratori e perfino dei clienti del gruppo Mercatone Uno si è recato come ogni sabato mattina al lavoro scoprendo che tutti e 55 i punti vendita avevano le saracinesche abbassate. Secondo i sindacati nella tarda serata di venerdì il tribunale di Milano avrebbe respinto la domanda di concordato preventivo avanzata l’11 aprile scorso dall’azionista del gruppo, la società Shernon Holding dell’itaio-svizzero Valdero Rigoni, dichiarandone quindi il fallimento. I dipendenti sono stati avvisati la scorsa notte attraverso messaggi whatsapp e comunicazioni nella posta di altri social network, come Facebook.

Il dramma di quei lavoratori esploso alla vigilia del voto europeo è diventato in un batter d’occhio un caso politico che ha dato l’impronta alla giornata di ieri. Ovviamente di fronte a una notizia che non era affatto attesa al ministero dello Sviluppo Economico anche sulla base della scarna documentazione trasmessa da Rigoni, il ministro Luigi Di Maio ha cercato di rassicurare subito chi si trovava senza lavoro annunciando la convocazione di un tavolo ministeriale per lunedì. Anche Matteo Salvini si faceva sentire (come il sottosegretario al Lavoro, il leghista Claudio Durigon) per assicurare che una soluzione sarà trovata dal governo. Le opposizioni, ma soprattutto il Pd, ha buttato sulle spalle dell’esecutivo il fallimento del gruppo Mercatone, e accusato pure Di Maio e Salvini di avere rotto il silenzio elettorale (fino a un secondo prima che parlassero li accusavano del contrario).

A poche ore dall’apertura delle urne non bisognava aspettarsi una discussione più elevata, e va bene. Solo che a un certo momento si è fatto trascinare nella bagarre uno dei candidati del Pd alle europee, Carlo Calenda, che ha accusato Salvini e Di Maio di avere violato il silenzio elettorale e di non avere saputo vigilare sulla crisi del gruppo Mercatone Uno. Un intervento grottesco, perché all’origine di questa crisi c’è proprio Calenda. Perché fu lui ad assegnare a Rigoni il gruppo con una decisione ufficializzata il 18 maggio 2018 (prima dell’avvento del governo gialloverde) dopo lunga istruttoria. Avendoglielo fatto notare ieri Calenda mi ha risposto giustificandosi cosi: “L’autorizzazione è stata data dopo 4 gare deserte. Alternativa sarebbe stata la chiusura. La vendita è stata perfezionata ad agosto. La società avrebbe dovuto fare operazioni di rafforzamento del capitale”. Ed è proprio nella sua risposta il problema. Calenda decise di assegnare il gruppo Mercatone a una società finanziaria maltese dietro cui si celava Rigoni con altro socio. Aveva 10 mila euro di capitale sociale ed era inattiva. Per l’operazione aveva presentato un piano che prevedeva un aumento di capitale a pagamento di 990 mila euro, portandolo a un milione di euro. Nessuno ha controllato le garanzie offerte prima di dargli il gruppo.

Nè il piano che aveva Rigoni, che si scopre solo ora nell’aprile 2019 all’interno della domanda di concordato preventivo. L’offerta era di fatto uno spezzatino della preda. Un acquirente avrebbe poi comprato il magazzino, un gruppo finanziario avrebbe dato la liquidità per l’operazione per poi prendersi gli immobili che avrebbero dovuto essere riaffittati alla società. Il grup- pò era importante, uno dei più importanti al mondo come Tpg Six Street Partners Lcc (dove si è fatto le ossa Bernard Attali), ma sotto Calenda nessuno ha preteso un a documentazione più seria. Ha detto sì per disfarsi della pratica, perché non c’era alcun impegno formale sottoscritto. A Tpg è bastato fare quello che Calenda e i suoi collaboratori avevano evitato: dare un’occhiata al gruppo Rigoni. Appena datala, hanno detto no grazie, e l’intera operazione non aveva più fondamento.

L’acquisizione è stata poi fatta ad agosto, con il nuovo governo. Ma l’autorizzazione è stata data dall’esecutivo precedente, quindi si considerava chiusa l’istruttoria. Un dubbio però sarebbe potuto venire anche agli uomini di Di Maio, perché il giorno del passaggio delle azioni – il primo di agosto- al ministero Rigoni non si è presentato, chiedendo sette giorni di più. Poi però è arrivato dicendo che aveva modificato i partner dell’operazione, presentato due accordi con Black Red White sa e Doktas KelebekMoblya Sanavi VE Tikaret Sa del valore uno di 25 milioni di eu ro e l’altro di 13 milioni di euro.

Accordi che non valevano un granché, visto che poco dopo entrambi i gruppi data umn’occhiata se la somno svignata. Ma il 7 novembre scorso nascondendo la propria situazione reale, il gruppo Shernon holding ha comunicato alla stampa e al ministero un ambizioso piano di sviluppo che puntava addirittura a portare a 500 milioni di euro il fatturato di Mercatone Uno nel 2022. In realtà nelle riunioni inteme gli azionisti erano disperati, perché non avevano nemmeno un euro a disposizione e i creditori già battevano alla porta. Il Mise non ci ha messo molto a capire che le cose stavano andando male e ha convocato tutti al ministero. Rigoni però non si è presentato chiedendo l’ennesimo rinvio. Poi società, sindacati, regioni interessati e un fedelissimo di Di Maio come il vicecapo di gabinetto Giorgio Sorial si sono trovati al ministero il 18 aprile scorso.

Sorial era furioso con Rigoni, che non aveva informato il ministero della sua scelta di chiedere i] concordato preventivo al tribunale di Milano. Rigoni ha minimizzato, sostenendo che era solo una mossa strategica per dare tempo ai suoi finanziatori di fare arrivare liquidità senza compromettere la continuità aziendale. Era una bugia, ma nessuno poteva contestarla. Anche perché Rigoni ha depositato al ministero la decisione del tribunale di Milano che dava tempo fino al 10 giugno per perfezionare la domanda di concordato. Perché quel termine invece non sia stato rispettato e tutto all’improvviso sia andato storto, è mistero ancora non chiarito.