Di Matteo: «Cosa Nostra può leggere come un segnale la Lega che difende Siri»

Intervista di Salvo Palazzolo al procuratore Nino Di Matteo pubblicata su Repubblica
Da sempre, il potere mafioso ha una grande capacità di cogliere i segnali che arrivano dalla politica e dalle istituzioni – ragiona Nino Di Matteo – in questi giorni, sta registrando sensibilità diverse nelle due forze di governo, i Cinque Stelle e la Lega. I primi chiedono le dimissioni del sottosegretario indagato per corruzione in una più ampia vicenda che porta a Trapani, gli altri lo difendono”. Dichiarazioni all’opposto. Il magistrato che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia non usa mezzi termini: “I mafiosi capiscono subito su chi poter fare affidamento. La difesa a oltranza di un indagato per contestazioni di un certo peso potrebbe essere, in questo come in altri casi, un segnale che i poteri criminali apprezzano”.
Quanto è grave la vicenda del sottosegretario Armando Siri?
“Non posso entrare nel merito, c’è un’indagine in corso. Ma il reato per cui il sottosegretario è stato già condannato, quello di bancarotta, è oggettivamente rilevante. Mi chiedo come sia stato possibile che tale dato non sia stato preso in considerazione al momento della nomina. La politica dovrebbe avere un atteggiamento rigoroso al momento della formazione delle liste e degli uffici pubblici. Invece, troppo spesso non è così. Un altro dato oggettivo riguarda il vertice della Lega”.

Quale?
“Alle ultime elezioni si è presentato alleato con chi ha continuato a pagare la mafia, ovvero Silvio Berlusconi, come dice l’ampia motivazione della sentenza per la trattativa Stato-mafia che un anno fa ha condannato rappresentanti delle istituzioni e capimafia. Era Dell’Utri a fare da mediatore fra gli esponenti di vertice dell’organizzazione e Berlusconi, in ossequio a un patto di protezione. E i pagamenti sarebbero avvenuti anche nel periodo in cui Berlusconi ricoprì per la prima volta la carica di presidente del consiglio, nel 1994. Ma, evidentemente, la sentenza non ha impedito a Berlusconi di continuare ad essere protagonista della scena politica, anche con l’alleanza di una forza attualmente al governo”.

Cosa sta mettendo in risalto l’ultima indagine fra Trapani e Roma?
“Oggi, la commistione fra questione mafiosa e corruzione è sempre più stretta. Perché le mafie, dopo un’attenta analisi costi-benefici, hanno capito che per perseguire i loro grossi interessi economici non devono più ricorrere al metodo classico dell’intimidazione, ma corrompere pubblici amministratori, funzionari e politici”.

Da magistrato, oggi in servizio alla direzione nazionale antimafia, che giudizio darebbe sull’impegno dell’attuale governo nella lotta alla mafia?
“Credo che alcune riforme vadano nella direzione giusta. La cosiddetta “spazzacorrotti”, al di là delle singole norme, ha messo fine alla sostanziale impunità che ha caratterizzato il nostro Paese su alcuni reati. Poi la modifica del reato di voto di scambio politico-mafioso. Segnali incoraggianti, ma ancora altri se ne potrebbero attendere. Ed è necessaria una svolta della politica: non si possono aspettare le sentenze della magistratura, bisogna avere la capacità di intervenire prima, recidendo qualsiasi legame. Invece, in campagna elettorale, tutte le forze politiche hanno taciuto sul tema della mafia e dei rapporti col potere”.

Perché questo silenzio?
“Non si comprende che la mafia continua a essere questione nazionale di grandissimo rilievo che inquina non solo l’economia, la finanza, ma compromette il corretto funzionamento delle istituzioni e la libertà di tanti cittadini. La lotta all’intreccio fra mafia e corruzione dovrebbe essere ai primi posti nell’agenda di qualsiasi istituzione anche governativa”.

L’ultima indagine della magistratura ripropone il tema delle complicità eccellenti attorno al latitante trapanese Matteo Messina Denaro, com’è possibile che sia imprendibile dal 1993?
“Messina Denaro è stato un protagonista cruciale della trattativa Stato-mafia e della stagione delle bombe del 1993. È a conoscenza di segreti che evidentemente una parte ancora esistente del potere non vuole che vengano fuori. E dalle indagini continua ad emergere una rete di protezione trasversale del latitante che purtroppo sembra riguardare uomini delle istituzioni, massoni, imprenditori e politici. Una ragione in più perché la politica non smetta di tenere i riflettori accesi su queste vicende, come faceva Pio La Torre, il segretario regionale del Partito Comunista ucciso dalla mafia: le sue denunce contro i politici collusi arrivavano ancora prima e a prescindere dalle inchieste della magistratura”.