Replica alle critiche al Reddito di Cittadinanza

da Econopoly

L’autore di questo post è Gabriele Guzzi, laurea con lode in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi. Ha lavorato per lavoce.info come fact-checker, è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi e attualmente è dottorando presso l’Università Roma Tre –

Ringrazio Massimo Famularo e il think tank Tortuga per le loro due repliche al mio primo post “lettera ai critici del Reddito di Cittadinanza”. Li ringrazio anche perché mi danno l’occasione di spiegare meglio alcuni punti e di esporre più accuratamente certi passaggi.

Innanzitutto debbo chiarire, e non pensavo fosse necessario, che l’intento del mio articolo non era tanto quello di difendere tecnicamente il provvedimento o, come scrive Tortuga, di sostenere che il Reddito di Cittadinanza (Rdc) fosse una soluzione all’elusione fiscale. 
Il mio era un tentativo di interpretare la cultura che mi sembra sottostare alla maggioranza delle critiche al provvedimento, le quali sono radicate non tanto su una legittima volontà di correggere lo stesso, quanto su quella di delegittimare una misura principalmente per motivi ideologici. Il mio obiettivo era cioè quello di evidenziare quanto la maggioranza dei critici, per utilizzare una metafora evangelica, vogliano incentrare l’intero dibattito culturale del paese sulla “pagliuzza tecnica” del reddito di cittadinanza, ignorando volontariamente “la trave” delle ingiustizie e degli squilibri del sistema produttivo occidentale. Tema, quest’ultimo, su cui ritornerò successivamente.

In ogni caso, poiché le critiche a me mosse sono state di natura tecnica, mi concentrerò anche io sulla pagliuzza del Rdc, non dimenticando però di ricordare che questo provvedimento rimane la più importante misura contro la povertà degli ultimi trent’anni, fatto che credo debba essere ulteriormente sottolineato.

Per motivi espositivi, suddividerò le risposte alle critiche per punti.

1. Lavoro e Rdc. Massimo Famularo nel suo pezzo sostiene che poiché il sussidio è concepito come una “misura ibrida tra indennità di disoccupazione e sostegno ai meno abbienti”, chi ha un lavoro ma vive sotto la soglia di povertà, non sarebbe “eleggibile per il Rdc”, e questo rappresenterebbe un fattore di ingiustizia. Credo che qui ci sia semplicemente una errata interpretazione del testo del decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 gennaio 2019. Infatti, Il Rdc non è concepito come una misura ibrida tra indennità di disoccupazione e sostengo ai meno abbienti, ma come un reddito minimo condizionato, ossia come un’unione tra le politiche attive del lavoro e la lotta contro la povertà. Questa precisazione apparentemente innocua, in realtà, confuta ciò che dice Famularo. Infatti, il Rdc è concepito come “un’integrazione al reddito famigliare” (art.3), e quindi se un lavoratore guadagna meno di 780 euro, è single, e non ha altre fonti di reddito, avrebbe diritto a una compensazione esattamente pari a 780 euro meno il salario percepito. Ed è quindi l’opposto di quanto sostiene Massimo Famularo.

2. Incentivi alle imprese. Tortuga invece sostiene che l’esonero dai contributi previdenziali e assistenziali per le imprese che assumono beneficiari del Rdc sarebbe iniquo, in quanto “lo sconto fiscale per le imprese […] sarà pari ai mesi mancanti alla fine del sussidio per il beneficiario assunto, che dura 18 mesi. Se si viene assunti al primo mese di sussidio, il datore di lavoro riceverà i restanti 17 mesi; se si viene assunti al 17esimo mese, l’azienda beneficerà solo di 1 mese di sconto”.

Anche qui mi sembra che i miei interlocutori incappino in un errore di interpretazione del testo. L’articolo 8 del decreto legge infatti sostiene sì che l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali ha una durata pari alla differenza tra 18 mesi e le mensilità già godute dal beneficiario, ma, al contrario di quanto sostiene Tortuga, tale esonero comunque non può essere “inferiore alle cinque mensilità”. Ancora più chiaramente, il comma due dello stesso articolo disciplina la possibilità che sia un ente di formazione accreditato a trovare un lavoro al beneficiario, e in questo caso l’esonero è di durata minima di 6 mesi, per un importo totale da dividere tra il datore di lavoro e l’ente di formazione. Quindi se un beneficiario sarà assunto al diciassettesimo mese, le imprese riceveranno non un mese di sconto, come scrive Tortuga, ma cinque, o sei nel caso in cui il percorso di formazione sia andato a buon fine.

La filosofia alla base poi mi sembra abbastanza intuitiva: se l’impresa ricevesse solo un mese di sconto al diciassettesimo mese, avrebbe un incentivo a far scadere il Rdc e farlo rinnovare per ottenere diciotto mesi di sconto. Simmetricamente, quindi, a partire dal secondo ciclo l’esonero contributivo è fissato a cinque o sei mensilità. In questo modo, al contrario di quanto sostenuto, le imprese saranno incentivate ad assumere quanto prima possibile i beneficiari migliori, magari giovani e con un maggiore livello di formazione, e questo non “svantaggia affatto i più deboli”, come scrivono. Infatti, questa scelta è semplicemente il risultato economico di una eterogeneità di formazione e abilità che nessun governo può abolire per decreto. Poi, nel caso in cui Tortuga desiderasse discutere di una trasformazione radicale del sistema capitalistico, compresa la sua innata propensione a favorire i più forti, sarei certamente contento di approfondire con loro questa tematica.

3. Produttività e salario. Molti poi mi hanno criticato per non aver espressamente ricordato che il gap tra produttività del lavoro e salari reali non sarebbe presente in Italia. Anche qui mi sembra che in realtà il mio articolo fosse abbastanza chiaro, e quindi provvederò semplicemente a citare i passaggi chiave. 
Io sostengo semplicemente che la quota salari ha subito un forte calo in quasi tutti i paesi dell’Occidente negli ultimi trent’anni. La disuguaglianza cioè non solo è aumentata tra le fasce di reddito, tra l’1% e il 99%, ma anche tra le classi sociali, ossia tra chi vive principalmente del proprio reddito da lavoro e chi di redditi da capitale, reale o finanziario, secondo la tripartizione adottata da Istat. In altre parole, i salari reali hanno vissuto un periodo di stagnazione rispetto alla crescita della produttività che, anche grazie alla globalizzazione dei flussi di merci e di capitali, è stata maggiormente accumulata dai percettori di profitto.

All’interno di questa dinamica globale, emerge il caso Italiano, che non solo ha subito la perdita di potere contrattuale del lavoro comune agli altri paesi, ma è stata in più danneggiata da una crescita fiacca, che poi ha indebolito la crescita stessa dei profitti. Non solo io infatti scrivo esplicitamente che questi guadagni di produttività sono “estranei al contesto italiano”, ma poi denuncio che è un intero capitalismo, nell’ovvio significato della sua globalità, che tende a fondarsi su un’asimmetria della distribuzione dei benefici economici. Questo fatto, continuo a sottolineare, in Italia “è ulteriormente peggiorato da una situazione di crescita stagnante ultradecennale”. Di fronte a questa situazione drammatica, che mi sembra che emerga dalle righe della mia lettera, è ovvio che il Rdc non può da solo contribuire ad un innalzamento automatico dei salari. Ma può invece rafforzare il potere contrattuale delle fasce più deboli e rinvigorire la domanda effettiva nelle regioni più economicamente depresse.

4. Famiglie numerose. Sono in parte d’accordo sul fatto che la scala di equivalenza che è presente nel decreto legge del 28 gennaio potrebbe svantaggiare le famiglie numerose. Sembra però che sia la stessa maggioranza, nella sua componente pentastellata, a voler modificare la scala di equivalenza tramite un emendamento che, come riporta tra gli altri Repubblica, diventerebbe pari a 1 per il primo componente del nucleo famigliare, e incrementato di 0,4 e 0,3 per ogni ulteriore componente maggiorenne e minorenne, fino ad un massimo di 2,5. Ora nel decreto l’incremento per i figli minorenni è di 0,2 e il massimo è 2,1. Questo, secondo i miei calcoli, dovrebbe portare il beneficio massimo per un nucleo famigliare a 1530 euro al mese e smussare lo squilibrio a sfavore delle famiglie più numerose.*

5. Trappola della povertà. In entrambi gli articoli di risposta si sostiene che questo provvedimento potrebbe ingabbiare i percettori in un “calvario di offerte di lavoro impossibili da rifiutare e paghe molto basse”, per come scrive Tortuga, che sostiene poi che ciò assomiglierebbe ai mini-jobs tedeschi. Sebbene forse Tortuga si volesse riferire non tanto ai mini-jobs quanto al contestato sussidio Hartz IV, la situazione tedesca rimane comunque allarmante. 
Mi sembra tuttavia che il paragone con il caso tedesco sia fuorviante.

Principalmente perché, sempre nel decreto del 29 gennaio, l’articolo 4 comma 8 chiarisce che la congruità delle tre offerte di lavoro non dipende solo dalle distanze geografiche o dalla durata di fruizione del beneficio, per come chiarirà poi il comma 9, ma anche dal salario che questo lavoro implica. Il numero 5 del comma 8 infatti rimanda all’articolo 25 del decreto legislativo 150/2015, che afferma che l’offerta è economicamente congrua solo se il salario è superiore del 20% rispetto alla Naspi percepita nell’ultimo mese, o nel caso di beneficiari di Rdc superiore di almeno il 10% dell’importo massimo fruibile da un solo individuo, ossia almeno 858 euro al mese, per come è stato emendato durante il lavoro della Commissione al Senato. Il senso di questo comma, che era comunque già presente nel decreto iniziale, è che non esiste solo il criterio geografico per stabilire la congruità di un’offerta di lavoro, ma anche quello economico. Questo è stato pensato proprio per ostacolare il pernicioso connubio tra povertà e semi-assistenzialismo che si è verificato altrove.

Al di là di questa precisazione legislativa, è anche qui ovvio che il Rdc non può da solo risolvere il problema occupazionale in Italia. C’è la necessità che accanto a questa fondamentale misura anti-povertà si accompagni un rilancio considerevole degli investimenti, pubblici e privati, affinché le pratiche di formazione, di riqualificazione o di inclusione sociale possano realmente sfociare in un nuovo impiego dignitoso.

6. Neoliberismo e ruolo dello Stato. Mi si permetterà di trattare come ultimo punto una questione più ampia, che riguarda cioè i lineamenti della politica economica oggi dominanti e il ruolo che lo Stato dovrebbe ricoprire in un’economia moderna. 
Sono costretto a ritornare su questo punto perché Massimo Famularo sostiene che il neoliberismo non sia mai esistito in Italia e Tortuga che sarebbe “semplicistico” portarlo come argomento. Mi verrebbe da dire, con una battuta, che forse per qualche liberista, posizione che intellettualmente è più che legittima, non saremo mai sufficientemente liberisti. 
Infatti, se prendiamo la definizione presente in questo ultimo articolo di Rodrik, Zucman e Naidu, potremmo dire che il neoliberismo, parola che sembra quasi vietato pronunciare in qualche milieu culturale italiano, non è che l’insieme di politiche che ricercano una maggiore flessibilità del lavoro, una deregolamentazione dei mercati finanziari, un indebolimento dell’azione dello Stato nell’economia tramite privatizzazioni e politiche di consolidamento fiscale, una riduzione della progressività fiscale, una liberalizzazione dei mercati e una de-sindacalizzazione diffusa. Mi sembrerebbe alquanto azzardato sostenere che dagli anni 90 non siano state fatte in Italia politiche in questa direzione, dalla flessibilizzazione del lavoro, dal pacchetto Treu al Jobs Act, dalle privatizzazioni di interi settori pubblici, le più importanti della storia dopo quelle della signora Thatcher, la deregolamentazione e la liberalizzazione dei movimenti di capitali, implementata con il processo di unificazione europea, e di importanti mercati interni, senza dimenticare i circa 26 anni di continui avanzi primari (ad eccezione del 2009) e la riduzione delle aliquote marginali Irpef più alte.

Mi sembra poi anche azzardato sostenere, come fa il dottor Famularo, che una misura per il rilancio dell’economia italiana sarebbe una “riduzione del numero dei dipendenti pubblici”. C’è sicuramente un diffuso pregiudizio su questo tema, che imputa al sistema pubblico italiano di essere troppo ingolfato, grande e bizantinamente confuso. Fatta salva la necessità di migliorare continuamente l’apparato pubblico, è doveroso ricordare che, nonostante questo pregiudizio, l’Italia si trova già tra i paesi con il più basso tasso di dipendenti pubblici dell’intero Occidente sul totale dell’occupazione. Come ho avuto modo di argomentare in un articolo su lavoce.info, da cui sono presi i grafici qui sotto, non solo l’Italia ha una percentuale minore di dipendenti pubblici di Francia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti, ma ha anche la percentuale più bassa di dipendenti under 35 di tutti i paesi Ocse, e quella più alta per i dipendenti over 55.

schermata-2019-02-23-alle-10-21-42Figura 1 – Percentuale di dipendenti pubblici sul totale degli occupati – dati 2015

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Figura 2 – Percentuale di dipendenti pubblici under 35 – dati 2015 per governo centraleFonte: elaborazioni lavoce.info su dati del rapporto Ocse “Government at a glance”

Questi dati allarmanti, che nella realtà concreta si traducono in un minor numero di medici, di cancellieri nei tribunali, di ingegneri, di funzionari nelle macchine amministrative etc., e quindi in un minore livello di efficienza, sono dovuti proprio al blocco del turnover stabilito nella legge finanziaria del 2008, che ha permesso anche alle nazioni vicine, come Francia e Germania, di venire a fare politiche di reclutamento in Italia per queste professioni ad alta specializzazione, causandoci non pochi danni economici e sociali.

La soluzione quindi sarebbe in realtà il contrario di quanto sostenuto dai miei interlocutori, ossia un rilancio della presenza dello Stato nei nuovi settori chiave dell’economia del XXI secolo, attraverso un massiccio livello di investimenti pubblici mission-oriented nei settori come l’energia, il progresso tecnico, la cura del territorio dal dissesto idrogeologico, l’università, la ricerca applicata; senza dimenticare la spina dorsale infrastrutturale del paese, anch’essa purtroppo degradata da anni di cattiva manutenzione, che è stata incautamente demandata ai privati proprio in nome del pregiudizio dello Stato inefficiente. Sono invece d’accordo con il dottor Famularo nel ritenere che il neoliberismo in salsa italiana è stato una “una funesta collaborazione tra politici miopi e capitalisti di relazione”, ed è per questo motivo che io ritengo che tale indirizzo di politica economica si allontani dal teorico modello della concorrenza perfetta e si avvicini di più a un dominio di monopoli privati e spesso globali, quello che mi pare accuratamente Crouch definisce “neoliberismo delle corporation”.

Se questa inversione di politica economica fosse messa in atto, insieme a un rilancio efficiente dell’occupazione pubblica, il reddito di cittadinanza verrebbe visto per quello che è: un necessario primo passo, che non è concepito per risolvere l’intera questione economica italiana, ma per ridare dignità e sostentamento a chi è rimasto indietro, in attesa che il qui auspicato rilancio economico, nonostante le previsioni oscure sull’economia globale dei prossimi mesi o almeno a seguito di queste, generi nuovamente un ricchezza diffusa, equa e sostenibile.

Twitter @GabrieleGuzzi

* Sebbene nel procedimento al Senato non siano state accolte tali modifiche, la maggioranza si sarebbe impegnata ad emendare il testo nel passaggio alla Camera. Ovviamente bisognerà vedere la disposizione di fondi aggiuntivi.