Copyright, dalla UE una minaccia alla libertà di Internet

di Guido Scorza, avvocato e docente di Diritto delle nuove tecnologie

A decidere se un contenuto debba, o non debba, essere rimosso dalla rete non deve mai essere un filtro, non deve mai essere una società privata. Ma un giudice o un’autorità amministrativa indipendente.

Il diritto d’autore è l’architrave normativa della circolazione dei contenuti online e offline. Decide quali sono i diritti che spettano a chi crea dei contenuti; quali sono i diritti che toccano a chi di quei contenuti fruisce; quali sono le responsabilità di chi sta nel mezzo.

Nel 2016, l’Unione Europea, resasi conto della straordinaria evoluzione dei tempi e delle tecnologie, ha messo mano a una proposta di direttiva che nelle intenzioni dovrebbe governare i nuovi fenomeni del diritto d’autore in vista del cosiddetto mercato unico digitale: la circolazione transeuropea dei contenuti della musica, dei film, degli articoli di giornale.

La direttiva dell’Unione Europea – quella sul diritto d’autore nel mercato unico digitale – è una buona cosa nelle intenzioni, è un mix di buone intenzioni. Con essa, il legislatore dell’Unione Europea si vuole fare carico di problemi che, effettivamente, sono sul tavolo.
È pessima dal punto di vista dell’esecuzione, dal punto di vista del linguaggio e delle scelte che si stanno compiendo.
In particolare, con riferimento a due aspetti: l’attività di indicizzazione dei contenuti online, l’idea che utilizzare un link a un contenuto, ai fini dell’indicizzazione, significhi utilizzare un diritto d’autore, è naturalmente sbagliata e fa a cazzotti con uno dei principi fondamentali della rete, nonché la libera circolazione dei link. E, inoltre, la responsabilità degli intermediari nella comunicazione: chi non produce un contenuto ma si limita a mettere a disposizione del pubblico un contenuto prodotto da terzi non dovrebbe essere chiamato a risponderne in prima persona.

Il problema che la proposta di direttiva europea vuole affrontare è chiamare Google, Facebook e gli altri grandi a rispondere di più quando pubblicano un contenuto pirata posto in condivisione da un singolo utente. Il proposito è corretto ma la direttiva è scritta contro, è scritta pensando che la rete sia fatta da oligopolisti e monopolisti di contenuti digitali, mentre la rete, per fortuna, è fatta da centinaia di milioni da startup che ogni giorno si affacciano sul mercato e provano a rendere più plurale l’informazione online.

Quando la direttiva vorrebbe stabilire che i grandi user generated content, che le grandi piattaforme che aggregano contenuti per conto di terzi devono rispondere per quei contenuti anche se a produrli e a pubblicarli sono stati gli autori, e quando stabilisce che il gestore della piattaforma dovrebbe istallare un filtro che in maniera automatica impedisca la pubblicazione di un contenuto pirata, dimentica che questi obblighi e questa responsabilità sono incompatibili per la maggior parte delle startup.
Google, YouTube, Facebook e gli altri hanno le tasche sufficientemente profonde per farsi carico di risarcire i titolari dei diritti nell’ipotesi di violazione. Una startup no. Google e gli altri possono decidere di correre il rischio che un contenuto pirata resti online se quel contenuto per loro ha valore, i piccoli no.

Il risultato finale rischia di essere un boomerang per il legislatore stesso, perché potremmo avere una rete meno libera, una rete meno corale, una rete meno plurale, nel senso che i soggetti in condizione di adeguarsi a quelle regole potrebbero essere sempre di meno. Ecco perché è una direttiva buona nelle intenzioni ma pessima nell’attuazione.
La proposta di direttiva dell’UE ha due macro problemi di metodo. Il primo è quello che si inserisce in un processo normativo che continua a pretendere di governare il futuro attraverso regole di dettaglio: questa proposta di direttiva è datata 2016 e nella migliore delle ipotesi diventerà legge nei singoli paesi membri nel 2021. È ovvio che le tecnologie che questa direttiva vorrebbe tutelare, nessuno di noi è in condizione di dire se nel 2021 esisteranno ancora e che ruolo avranno sui mercati. Quindi un primo aspetto centrale è che bisogna smetterla di scrivere leggi, o direttive, che non siano tecnologicamente neutrali. Nelle leggi vanno lasciati soltanto i principi e poi il resto va demandato a strumenti di soft law.

Il secondo aspetto cruciale di questa direttiva è che segue un equivoco sempre più diffuso in Europa, e cioè che la soluzione corretta per riprenderci la rete, e per garantire la libertà online, sia quella di chiamare i più grandi, Google, Facebook e gli altri, a rispondere in maniera severa delle condotte dei loro utenti. È accaduto con il diritto all’oblio, sta accadendo con le fake news e adesso è la volta del diritto d’autore. È un concetto pericoloso e sbagliato. Se io stabilisco una regola secondo la quale YouTube piuttosto che Google piuttosto che Facebook rispondono del contenuto – non ha importanza sotto quale profilo – postato in rete dall’utente, l’unico effetto che ottengo è quello di trasformare YouTube in una sorta di giudice privato, di censore. E l’effetto immediatamente successivo è che YouTube, evidentemente, continuerà a fidarsi e continuerà a lasciare pubblicare agli utenti che hanno una certa solidità economica e che potrebbero in ogni caso tenerlo indenne da ogni responsabilità, mentre restringerà, sempre di più, la possibilità per i più piccoli di dire per davvero attraverso la rete quello che pensano.

È la strada assolutamente sbagliata. Non è responsabilizzando gli intermediari che risolveremo il problema. Viceversa, consegneremo sempre più potere agli intermediari come la storia degli ultimi anni ci insegna.

A decidere se un contenuto debba o no essere rimosso dalla rete non deve mai essere un filtro, non deve mai essere una società privata deve sempre essere un giudice o un’autorità amministrativa indipendente. Se c’è un problema di tempi investiamo sulla giustizia e puniamo la incondizione.
In casi eccezionali di correre ancora più veloce. Ma non deleghiamo a un privato un compito che è parte integrante, negli stati democratici, della giustizia nell’accezione più ampia e più alta possibile.