Cassa depositi e prestiti chiarisca le sue oscure decisioni gestionali. L’Italia non è una colonia francese

di Elio Lannutti (Fondatore Adusbef- candidato al Senato Lazio2 per il MoVimento 5 Stelle)

Cassa depositi e prestiti (CDP), Spa controllata con l’82,77 % dal ministero dell’Economia (Mef), il 15,93% da un gruppo di Fondazioni bancarie, che gestisce prevalentemente il risparmio postale di 26 milioni di italiani (321 miliardi di euro, 212 miliardi in Buoni, 109 miliardi depositati sui libretti), ha ai suoi vertici banchieri, Claudio Costamagna (ex Goldman Sachs) presidente; Fabio Gallia (ex BNL) direttore generale ed amministratore delegato; dirigenti della ragioneria generale dello Stato e del Tesoro nel consiglio di amministrazione, come Alessandro Rivera, Maria Cannata; Alessandra Dal Verme nel collegio sindacale.

Come recita lo statuto, il Consiglio è composto da nove membri ed è integrato, per la gestione delle risorse provenienti dal risparmio postale (Gestione separata), dal D.G. del Tesoro (Vincenzo La Via), dal Ragioniere generale dello Stato, da tre rappresentanti di regioni, province e comuni (attualmente Piero Fassino ed Achille Variati (PD), Massimo Garavaglia (Lega), da un magistrato della Corte dei Conti.

Furono i magistrati contabili, nella delibera che analizzò i risultati di bilancio nel 2015, a rilevare che Cdp, l’ente che gestisce il risparmio postale degli italiani è: “allo stesso tempo soggetto alla vigilanza dello Stato e attore di molte delle sue operazioni finanziarie”. Occorre quindi chiarire se sia “un’entità del mondo bancario o un organismo pubblico”.

Proprio Maria Cannata, responsabile del debito pubblico e Vincenzo La Via, sono stati citati in giudizio dalla Corte dei Conti, assieme a Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco (ex direttori generali del Tesoro e ministri dalle porte girevoli con le banche di affari), per il derivato stipulato nel 1994 con Morgan Stanley, costato alle casse pubbliche oltre 3 miliardi di euro nel 2012, contratti capestro che invece di tutelare lo Stato italiano da eventi avversi come l’aumento dei tassi di interesse, si sono trasformati in boomerang. Al 31 dicembre 2016 infatti, il valore di mercato di tutti gli strumenti derivati sul debito era negativo per 37,9 miliardi e sono costati tra il 2013 ed il 2016 ben 24 miliardi di euro alle casse pubbliche, quindi ai cittadini.

Itatech è una società costituita il 19 dicembre 2016 da Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Fondo Europeo degli Investimenti (FEI) tramite una piattaforma (un fondo che investe in altri fondi di venture capital destinati a loro volta ad investire in start-up e spin-off di università, IRCCS e centri di ricerca) dotandola di 200 milioni di Euro (100 milioni di euro da CDP e altrettanti da FEI), per investire in innovazione, un campo in cui l’Italia è indietro anni luce rispetto a paesi come Francia, Germania, Stati Uniti ed Israele.

Basti pensare che in Europa la Fei (Fondo Europeo Investimenti) ha investito negli ultimi anni oltre 600 milioni di euro, senza mai occuparsi però del nostro Paese. Inoltre, il mercato del Venture Capital italiano è ancora piccolo: nel 2017 le startup sono riuscite a farsi finanziare per 110 milioni di euro, in calo rispetto al 2016 e in ogni caso lontani dai quasi tre miliardi di euro raccolti dalle startup francesi. La Cassa ha così ideato questo strumento per cercare di riempire un vuoto nel nostro sistema economico.

Secondo le regole della piattaforma i soldi devono essere destinati ad aziende italiane, per mezzo di quattro o cinque fondi non necessariamente del nostro Paese. Insomma, ciò che conta è che a ricevere i finanziamenti siano ricercatori e aziende italiane. Sono passati più di 12 mesi e Itatech ha fatto parlare di sé soprattutto per le polemiche suscitate dall’intenzione (trapelata informalmente attraverso numerosi organi di stampa) di assegnare, senza una nota, una spiegazione, una motivazione, una pur embrionale forma di pubblicità, gran parte delle risorse del fondo a una società francese denominata Sofinnova.

La legge sul Procedimento Amministrativo, pietra angolare del diritto pubblico, stabilisce che l’attività della Pubblica Amministrazione, dove rientra CDP, “persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza”.

Prima ancora del potenziale conflitto di interessi che sovrasta la scelta di CDP, amministrata da una figura storicamente contigua al mondo della finanza transalpina, di erogare denaro parzialmente italiano a una realtà economica francese, peraltro vicina ad una nota charity italiana nel cui consiglio siede lo stesso amministratore delegato di CDP- nell’esposto alla Corte dei Conti- ho evidenziato che Itatech-CDP ha disatteso i principi costituzionali nonché criteri di buona amministrazione non avendo spiegato quale sia il beneficio per CDP derivante dalla scelta di un soggetto estero piuttosto che di uno italiano. È stata compiuta un’istruttoria in tale senso? È mai stata sollecitata alcuna società italiana di venture capital ? È mai stata prodotta qualche evidenza del fatto che la proposta imprenditoriale italiana si sia dimostrata nel suo complesso carente e per tale ragione sia risultato necessario rivolgere l’attenzione di CDP verso soggetti esteri? Parimenti non è noto per quale ragione CDP non abbia dato alcuna pubblicità al procedimento di scelta del soggetto cui assegnare i contributi Itatech, né sul proprio sito né alla apposita Commissione Parlamentare di Vigilanza CDP, nei cui atti non vi è alcuna traccia.

Infine è inspiegabile il motivo, dopo una interrogazione parlamentare del 24 ottobre scorso e dopo che a procedura di assegnazione dei fondi ancora in corso il managing partner di Sofinnova annunciava a mezzo stampa (Corsera del 7 novembre 2017) che “probabilmente Sofinnova sarà tra i beneficiari di Itatech” e la prossima disponibilità ad investire in Italia 100 milioni di Euro (che peraltro pare chiaro al momento della dichiarazione Sofinnova non avesse), CDP non abbia ritenuto di fornire alcuna spiegazione né alla collettività, né alla relativa Commissione di Vigilanza.

L’Italia, specie dopo l’umiliante sconfitta di Fincantieri, che diventerà proprietaria del 50% dell’azienda d’Oltralpe Stx e non del 51% come richiesto dai ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, coi francesi che avranno l’altra metà delle azioni spartite fra lo Stato, l’azienda pubblica francese della cantieristica militare Naval Group (ex Dcns) e un gruppo di fornitori della regione di Saint-Nazaire, penalizzante soprattutto per l’ex Finmeccanica Leonardo, non è una colonia della Francia, ma ha il dovere di recuperare il ruolo strategico che le compete coi cugini d’oltralpe. Il Governo col premier Paolo Gentiloni, che di recente ha accolto con le fanfare il presidente Emmanuel Macron, forse grato per aver chiuso le frontiere con l’Italia ai migranti respinti alle frontiere di Ventimiglia ed agli altri valichi in aperta violazione del Trattato di Shengen, deve rivendicare l’orgoglio di nazione fondatrice dell’Ue a tutela di diritti ed interessi degli italiani.