Chi vuole il Fiscal Compact?

di MoVimento 5 Stelle

Oggi, nel silenzio generale di tutti i media italiani, si tiene uno dei più importanti consigli europei degli ultimi 5 anni. I capi di Stato discuteranno sul Fiscal Compact e in generale sul pacchetto varato la settimana scorsa dalla Commissione europea sul futuro dell’unione economica e monetaria. Questo insieme di proposte riguarda: l’introduzione di parte del Fiscal Compact nell’ordinamento giuridico dell’UE; la trasformazione del MES in Fondo Monetario Europeo (ovvero l’istituzionalizzazione della Troika); il rafforzamento del programma sulle riforme strutturali. Parliamo di due regolamenti e una direttiva che hanno come obiettivo il rafforzamento dell’ingerenza politica diretta dell’UE sugli Stati, esercitata attraverso il vincolo economico e il ricatto. Discuteranno infine del bilancio dell’Eurozona, del completamento dell’unione bancaria e dell’introduzione del Ministro delle Finanze UE (che potremmo chiamare il futuro ministro dell’austerità).

Paolo Gentiloni rappresenterà l’Italia e potrà bloccare questo scellerato accordo intergovernativo che prende il nome di Fiscal Compact.
Il PD ha dichiarato di voler porre il veto, non è più il momento dei proclami da campagna elettorale. Qui si gioca il futuro di almeno tre generazioni di cittadini italiani, fermiamo il Fiscal Compact. Il MoVimento 5 Stelle al Governo vuole portare, anche in UE, una visione che capovolga il paradigma della iper-burocratizzazione dell’Unione. Basta vedere l’eccesso di regolazione nella vigilanza bancaria o, peggio, la costruzione della governance intorno alla moneta unica. La scarsa fiducia tra i membri europei ha partorito un impianto di norme dalla ratio folle, che schiaccia le persone e toglie ai Paesi la possibilità di usare i propri bilanci in funzione non solo anticiclica, ma soprattutto allo scopo di contrastare una condizione ormai pressoché strutturale di scarsa crescita e di deflazione incombente.

L’articolo 16 del Fiscal Compact, voluto fortemente dalla Germania come patto intergovernativo nel 2012, stabilisce che entro quest’anno i 25 Paesi UE firmatari, tra cui l’Italia, lo incorporino nella cornice giuridica dei trattati europei. Vedremo poi se rimarrà in piedi la regola del debito, che è entrata in vigore nel 2015 e che in teoria ci costringerebbe a ridurre l’eccesso di debito rispetto al 60% del PIL di un ventesimo all’anno nella media dei tre anni precedenti (backward-looking). Stiamo parlando di 55-60 miliardi di tagli ogni anno: una pazzia.

Peraltro, quelli di Maastricht sono parametri del tutto discrezionali e legati a un altro periodo storico, un’epoca che dal punto di vista economico è un’era geologica fa. Di solito ci si concentra sul paletto del deficit/PIL nominale al 3%, ma pure la soglia del 60% per il rapporto debito/PIL meriterebbe una riflessione, visto che rappresenta la media del debito nei Paesi Ue durante gli anni Novanta, livello che oggi è salito intorno al 90%. In questo momento, però, non si tratta di ridiscutere Maastricht. Basta ricordare che esso si chiama “Patto di stabilità e crescita” e che secondo molti economisti il Fiscal Compact sarebbe contrario agli stessi principi sanciti dai Trattati UE. Di fronte all’opzione della direttiva della Commissione da recepire a livello nazionale, un governo Cinquestelle farà in modo di non dare seguito al diktat.

Qualche uomo politico oggi straparla contro il Fiscal Compact senza alcuna credibilità. Infatti i partiti, non il MoVimento 5 Stelle, hanno già votato senza colpo ferire, purtroppo, per l’inserimento del principio del pareggio di bilancio strutturale nel nostro corpus costituzionale. Dunque hanno già piegato la testa rispetto ai principi fondanti del Fiscal Compact, principi disumani e per giunta astrusi in ragione di un calcolo del PIL potenziale che è del tutto arbitrario e poco trasparente. Ma un Paese che non ha margine alcuno per contrastare un ciclo recessivo, per redistribuire in favore dei ceti medi e bassi, per usare la leva fiscale in favore delle sue famiglie e delle sue imprese, è un Paese il cui governo ha già fallito prima di iniziare. Ecco perché sarebbe fondamentale arrivare quantomeno a scorporare gli investimenti pubblici produttivi dal computo del disavanzo. Noi punteremmo sui settori del futuro e potremmo garantire grandi benefici in termini di progresso e qualità della vita.

Abbiamo visto esecutivi di centrodestra e centrosinistra che hanno ossequiato per anni i dogmi dell’austerity e delle salvifiche riforme strutturali (bisognerebbe in realtà capire quali davvero servono e quali no, invece di ripetere un mantra generico). E abbiamo visto contemporaneamente l’Italia sprofondare fino al 130% e più di debito/PIL. Senza, per questo, guadagnarsi nemmeno spazi seri di intervento finanziario in favore delle persone, spesso schiacciate dalla globalizzazione selvaggia e dagli squilibri generati dalle regole uniche europee. Così non va. Valutiamo i Paesi non solo da quanto spendono, ma soprattutto da come spendono. Superiamo il Fiscal Compact e discutiamo casomai di un “Quality Compact” che abbia come stella polare il benessere dei cittadini europei.