Sanzioni Usa alla Russia: concorrenza sleale… a tutto gas?

di Fabio Massimo Castaldo, EFDD – M5S Europa

In queste ultime settimane è tornato alla ribalta il tema delle sanzioni nei confronti della Federazione Russa, pallino costante tanto del Partito Repubblicano quanto di quello Democratico negli Stati Uniti, nonché di diversi “falchi” dei paesi dell’Europa centrale e orientale, Polonia su tutti. Mai come oggi, il tema merita un approfondimento maggiore rispetto a quanto detto da gran parte della stampa nostrana: con l’approvazione definitiva di questo ennesimo pacchetto di sanzioni, volute e imposte dal Congresso americano al Presidente Trump sono stati messi a rischio ben otto progetti energetici internazionali. Per alcuni di questi sarebbe in forse la realizzazione stessa, mentre per altri la manutenzione o le riparazioni straordinarie specie, ovviamente, nei tratti presenti sul territorio russo. La stessa sicurezza energetica del Continente europeo è messa a repentaglio.

Ma quali sono i veri motivi di questo ennesimo inasprimento dei rapporti Washington-Mosca? La motivazione ufficiale risulterebbe essere legata esclusivamente alle presunte ingerenze del Cremlino nella campagna presidenziale USA, nonché all’annessione della Crimea. Qualcuno ha persino avanzato l’ipotesi che questa prova di forza sia una ritorsione e un monito del Congresso verso Putin, per scoraggiare eventuali futuri tentativi di interferenza nella politica interna. Non dubito certo che ciò possa essere nella testa dei legislatori americani. Ma, a conti fatti, l’obiettivo prioritario mi sembra essere ben altro: far saltare importantissimi progetti di cooperazione tra la Russia e i Paesi membri UE nel settore energetico con il fine ultimo di farli virare, obtorto collo, verso il gas naturale liquefatto (o lng), di cui gli USA, secondo recenti stime, diventeranno quasi certamente il secondo esportatore mondiale nel biennio 2020-2021. Una priorità commerciale ed economica evidente per gli interessi americani. Una scelta del tutto dissennata per quelli europei, visto non solo il maggior costo dell’lng rispetto al gas naturale russo, ma anche il maggior pericolo derivante dall’installazione di impianti di rigassificazione al largo delle nostre coste.

Non a caso Trump si è recato, ai primi di luglio, proprio in Polonia (paese punta di diamante del fronte oltranzista contro il Kremlino) dove l’8 giugno di quest’anno è arrivato il primo carico di lng proveniente dalla Louisiana, proprio nel nuovo terminal lng polacco nel nord-ovest del paese, a Swinoujsci, con una capacità di 5 miliardi di metri cubi all’anno. L’ambizione malcelata di Varsavia è divenire l’hub europeo di questo nuovo import, facendo leva sui paesi vicini affinché “l’indipendenza energetica” dalla Russia (Gazprom fornisce attualmente i 2/3 dei consumi di gas polacchi) prevalga sull’economicità e sull’efficienza della scelta, applicando la classica teoria politica polacca dell’Intermarium (mar Baltico – mar Nero) di contenimento contro Mosca. Fin qui tutto appare sin troppo chiaro.

Ma chi pagherà il conto di questa fuga (commerciale) in avanti americana? La più colpita sarebbe senz’altro la Germania di Angela Merkel, che con il Nord Stream 2 (progetto da 55 miliardi di metri cubi l’anno che prevede il raddoppiamento del gasdotto che trasporta il gas russo in Germania e che ne farà l’hub fondamentale in Europa, a spese delle ormai sepolte velleità italiane del progetto South Stream) ha davvero molto da perdere. Ed essendoci in ballo la Germania (cosa che a Trump non dispiace affatto, visto che Berlino vanta un enorme surplus commerciale verso Washington), non a caso la Commissione europea stavolta ha provato ad alzare timidamente la voce. Addirittura per bocca del suo Presidente Juncker ha voluto esprimere contrarietà contro tale scelta autonoma del Congresso americano, del tutto non concordata con gli alleati (quasi fosse una novità). E ha inneggiato alla vittoria quando, in extremis, a Bruxelles sono riusciti a strappare un innalzamento della soglia minima di partecipazione delle imprese russe ai progetti a cui si possono applicare le sanzioni, dal 10% al 33%, insieme alla promessa che gli alleati verranno consultati prima di applicare le sanzioni stesse.

Ma non c’è solo la Germania. In tre degli otto progetti a rischio è coinvolta anche l’italiana ENI, in particolare nel progetto Zohr, l’enorme giacimento di gas scoperto dal gruppo italiano in Egitto e lanciato a grande velocità verso la messa in produzione. Un ulteriore colpo mortale al corridoio sud, già martoriato dalla perdurante instabilità libica, senza dimenticare tutti gli importanti appalti per le nostre imprese altamente specializzate nella costruzione di tali impianti.

Cui prodest, quindi? È evidente quanto questa escalation di tensione, culminata con l’espulsione da parte di Mosca di ben 755 diplomatici americani, non abbia fatto altro che incrinare ulteriormente i rapporti economici, energetici e commerciali, tutto a vantaggio dell’interesse americano volto ad ostacolare quanto più possibile il dialogo UE-Russia.

La Commissione Juncker ha il dovere di mantener fede alla sua parola nei fatti e non solo nelle dichiarazioni: difendere gli interessi europei vuol dire tenere davvero il punto contro queste sanzioni completamente insensate che danneggeranno, per l’ennesima volta, le nostre imprese e la nostra sicurezza energetica. E reagire con tutta la decisione e la durezza necessaria se gli Stati Uniti implementeranno sanzioni senza concordarle, mettendo in pratica questo dissennato disegno di legge. Non sarà facile vincere l’opposizione interna del fronte capeggiata dalla Polonia, desiderosa di dimostrare a Washington quanto l’attuale governo possa essere un affidabile alleato. Ma oggi diventa ancora più fondamentale rilanciare seriamente per l’Europa un ruolo di mediatrice e di ponte tra Russia e Occidente per favorire una distensione e un dialogo che, sebbene irto di ostacoli e di rilevanti nodi da sciogliere, è fondamentale per la sicurezza (non solo energetica) e la stabilità di entrambe. Un ruolo che la geografia e la storia ci impongono. Ma che la politica estera europea continua a ignorare.