#ProgrammaBeniCulturali – La riforma Franceschini e l’anacronistico ritorno al centralismo ministeriale

di Edoardo Villata – Storico dell’arte

Credo che una struttura complessa com’è, in questo caso, un Ministero, dipenda direttamente dall’obbiettivo che si prefigge. In questo caso, quindi, dobbiamo chiederci, a proposito del patrimonio storico italiano, qual è la sua funzione. Deve o no, produrre un profitto? E, se sì, che tipo di profitto deve produrre? Un profitto economico, quindi, commisurabile in termini quantitativi, oppure un profitto di altro genere? Se riteniamo che il profitto debba essere economico e che quindi, agli investimenti che, in questo patrimonio, vengono fatti, debba corrispondere un ritorno economico, allora è evidente che la distinzione tra tutela e valorizzazione sia logica, sia sensata, addirittura sia inevitabile però, si corre, secondo me, un rischio che, probabilmente, non era nelle intenzioni di nessuno ma che, quando si fanno scelte molto radicali, molto profonde, diventano quasi inevitabili, le cose tendono poi a seguire la loro logica, non la nostra e ad andare verso esiti che magari non ci immaginiamo nemmeno quando ragioniamo sulle cose.

Credo che dobbiamo fortemente e profondamente interrogarci su questo perché, in fondo, il nostro patrimonio storico, io preferisco non parlare di beni culturali perché il bene è già un qualcosa che, di per sé, è misurabile, quantificabile, un patrimonio è una cosa si che riceve in eredità esattamente come noi abbiamo ricevuto in eredità tutta questa somma di oggetti, di luoghi e di idee.

È qualcosa di molto più simile al patrimonio genetico che al patrimonio, diciamo, che possiamo avere in banca.

In questo senso, se si ritiene concreta questa seconda idea, lo scopo, il fine principale del Ministero dei beni culturali, si chiama così, deve essere, prima di tutto, la tutela e la conoscenza. Il che non significa, né che tutto questo non abbia un costo, anzi, le risorse richieste sono enormi, evidentemente, il costo ce l’ha, ha anche un ritorno, in termini, dicevo, non quantificabili ma anche concreti perché una crescita civile e culturale della cittadinanza non può che avere, poi, anche dei benefici di tipo economico, magari, sui tempi lunghi, non per forza dopodomani, ma alla lunga ci sono. E allora, se la tutela diventa l’elemento principale, penso che si debbano studiare i sistemi che meglio favoriscono, appunto, questa tutela.

E, tutto sommato, forse anche per ragioni generazionali, non lo so, però, da studioso che non è mai stato in una soprintendenza, non ha mai lavorato in una soprintendenza, quindi non ho, diciamo, interessi di bottega, in questo senso, ma da studioso che con le soprintendenze ha sempre avuto a che fare, evidentemente, ritengo che il vecchio sistema, diciamo, quello sostituito dal decreto del gennaio 2016, con la divisione per competenze delle varie soprintendenze, quindi archeologica, artistica, architettonica e paesaggio, archivistica, rappresenti, alla fine, il sistema, nonostante tutto, più idoneo e più efficace, per gestire questo grande patrimonio, nell’ottica che si è detto.
Il discorso si allarga anche sui musei e questo lo dico, forse, a livello sentimentale, resto anche legato all’idea del museo parte del territorio e quindi, di nuovo, gestito direttamente dagli organi di tutela, e questo è quanto, sostanzialmente, credo dovemmo fare.

Naturalmente, la cosa di cui un ministero così ripensato, quindi che ha le soprintendenze non come un elemento che ci dev’essere, ma come proprio la ragion d’essere, il fulcro, il perno intorno a cui, poi, le politiche della tutela si sviluppano, abbia evidentemente bisogno anche poi di innesto di forze fresche, di personale tecnico scientifico, che c’è, che non manca, anzi, e di cui oggi le soprintendenze, basta parlare con chiunque lavori nel settore, sentono decisamente il bisogno.

Di per sé, la valorizzazione non è un male, a condizione che sia sempre, e sottolineo sempre, sottoposta alle esigenze della tutela, non solo in teoria, ma anche senza eccezioni, in pratica. Quindi anche le attività, collaterali, che si fanno in un museo vanno bene nella misura in cui non comportano alcun rischio per l’incolumità delle opere presenti.