#ProgrammaImmigrazione: le vie legali di accesso

I partiti sono politicamente responsabili del disastro immigrazione. Il Partito Democratico ha voluto l’operazione Triton che prevede l’apertura dei soli porti italiani a tutti i barconi. Forza Italia e Lega, quando erano al governo, hanno firmato il Regolamento di Dublino che costringe i richiedenti asilo giunti in Italia a rimanervi anche se vorrebbero andare in altri Stati europei. I risultati delle loro politiche sono evidenti a tutti gli italiani. Chi ha sbagliato deve andare a casa. L’immigrazione deve essere gestita e le leggi rispettate. Per arrivare allo storico obiettivo di scardinare il business degli scafisti e azzerare sbarchi e morti nel Mar Mediterraneo, bisogna rafforzare lo strumento delle vie legali e sicure di accesso per raggiungere l’Europa. Nel quesito che oggi discutiamo, chiediamo la valutazione dell’ammissibilità delle domande di protezione internazionale nelle ambasciate e nei consolati nei Paesi di origine o di transito o nelle delegazioni dell’Unione europea presso i Paesi terzi, con il supporto delle Agenzie europee. Con questa proposta si otterrebbero il coinvolgimento dell’Europa nella gestione dei flussi e la riduzione dei centri di accoglienza dove troppo spesso si nascondono oscuri interessi. Inoltre, ne beneficerebbero anche i profughi stessi che, una volta riconosciuto il diritto alla protezione, avrebbero un modo sicuro e legale per scappare da guerre e persecuzioni.

di Paolo Morozzo Della Rocca, docente di diritto civile all’Università di Urbino ed esperto di diritto dell’immigrazione, Comunità di Sant’Egidio – Progetto corridoi umanitari.

La distinzione tra migranti economici, migranti forzati, profughi o richiedenti asilo è, in realtà, una distinzione difficile e non troppo netta. Persino da uno stesso Paese si possono avere flussi misti. Un nigeriano può scappare da Boku Haram in una regione del Nord o da un movimento autonomista violento ma potrebbe anche venire da una città ed essere in cerca di un futuro professionale. La domanda che ci poniamo oggi è: “Perché i rifugiati arrivano con i barconi?”. In passato, i profughi potevano viaggiare con un passaporto e un biglietto e chiedere asilo alla frontiera sperando di non essere respinti proprio lì, ma una volta non serviva il visto.
Il visto è uno strumento di controllo recente. L’Italia, per esempio, ha introdotto una regola generale d’ingresso con il visto solo nel 1990. Il visto è una specie di controllo anticipato rispetto alla frontiera e quindi, quando non viene concesso, diventa una sorta di respingimento anticipato proprio perché, secondo le norme vigenti oggi, si può chiedere asilo solo se si riesce ad arrivare alla frontiera, ma ci si arriva solo se si ha un visto. Però tu puoi ottenere il visto e venire in Italia, in realtà, solo se sei turista, o se ti fingi turista, ma se hai bisogno di asilo sicuramente non puoi venire. Perciò qui c’è un paradosso: può entrare regolarmente e viaggiare in tutta sicurezza solo chi non ha diritto di restare, mentre chi questo diritto ce l’ha è costretto a esercitarlo dopo avere viaggiato illegalmente.

Il paradosso è anche che, per chiedere asilo oggi, bisogna prima affrontare il deserto, poi si diventa naufraghi e si arriva come clandestini. Nel frattempo si perdono o si lasciano i documenti e poi bisogna smettere di essere clandestini e fare domanda di asilo. Alcuni, troppi, muoiono in mare: nel 2016 circa 5.000. E quanti ancora saranno morti nel deserto? Certo, non erano tutti profughi, non erano tutti richiedenti asilo, ma comunque erano tutte povere persone in cerca di speranza. Ora, costretti alla clandestinità, i profughi richiedenti asilo non possono ovviamente scegliere come viaggiare, ma nemmeno possono scegliere dove arrivare.

Tutto è deciso dai trafficanti. Così, per esempio, un eritreo che ha fratelli o cugini in Olanda, se potesse andrebbe in Olanda, ma invece arriverà in Sicilia. Secondo le regole di Dublino, il Paese di primo sbarco nell’Unione Europea è il Paese competente per dare asilo. Questo significa che quell’eritreo, con i cugini in Olanda, dovrà rimanere in Sicilia, una volta arrivato. E anche una volta riconosciuto rifugiato, lui che parla bene l’inglese e ha già un lavoro che l’aspetterebbe in Olanda – perché il fratello glielo ha procurato – dovrà però rimanere in Italia per almeno 5 anni. Questo è un altro paradosso. Più la sua vita in Italia sarà difficile – per esempio, non trova lavoro e non ha una casa – e più sarà obbligato a rimanere da noi, rimanendo lontano dal fratello o dal cugino che lo attenderebbe in Olanda. Infatti oggi è previsto che i rifugiati, una volta arrivati in un Paese responsabile per il loro asilo, possano cambiare Paese di residenza solo se ottengono, dopo almeno 5 anni di residenza e avendo trovato un lavoro regolare, un nuovo permesso di soggiorno.

Il regolamento di Dublino è proprio come una gabbia ma, smetterebbe di esserlo, se i richiedenti asilo potessero fare domanda di visto per asilo nei consolati dei Paesi di loro preferenza dove loro vorrebbero andare. E questo realizzerebbe, in realtà, anche una misura spontanea, diciamo così, non coercitiva, di equa distribuzione sul territorio europeo dei richiedenti asilo. Dunque, l’idea della domanda di asilo presso i consolati nei Paesi di origine, ma forse, soprattutto nei Paesi di primo transito, per esempio i siriani in Libano o in Giordania, è un’idea giusta anche se passare da un’idea a una regola richiede uno sforzo ulteriore: un compromesso tra l’idea e la realtà. I consolati dovranno rilasciare i visti, ma li rilasceranno a tutti quelli che hanno bisogno di protezione, che non sabbiamo quanti sono, oppure metteranno una quota massima d’ingresso ogni anno?

D’altra parte, se ci fosse una quota annuale, questa dovrebbe essere sufficientemente consistente, altrimenti l’idea non funzionerebbe.
Se noi vogliamo togliere le persone dai barconi, bisogna che li convinciamo a fare una fila, ma se la fila non scorre, le persone si toglieranno dalla fila e torneranno sui barconi. Si potrebbero individuare dei criteri di preferenza: per esempio se il richiedente ha già un legame positivo, poniamo con l’Italia – come un parente a Milano che lo aspetta – questo potrebbe essere un criterio di preferenza. Senza impedire, a chi non ha questo criterio, di mettersi in fila. Si potrebbe poi pensare a un sistema misto, una quota di ingressi per asilo, di cui potrebbe essere interamente responsabile lo Stato, ma forse, anche a una quota di ingressi autorizzabili in presenza di uno sponsor privato: qualcuno che invita e sostiene, accoglie, paga delle spese.

Ma questi ingressi attraverso uno sponsor, potrebbero essere ingressi giustificati da motivi umanitari, qualcosa di più vicino ma a margine del diritto d’asilo. Potrebbero essere ingressi motivati da legami familiari significativi: ad esempio, il figlio maggiorenne di uno straniero che soggiorna regolarmente non può più venire per ricongiungimento familiare perché ha più di 18 anni, ma perché lasciarlo venire con i barconi se ha un genitore che ha dei buoni requisiti economici per il suo ingresso? E magari possiamo anche richiedere qualche requisito in più: un’adesione alla cultura italiana e un apprendimento della lingua. In questo modo, riusciremmo a mettere in fila, togliendoli alle grinfie dei trafficanti, un’ulteriore parte di coloro che oggi si affidano alle carrette del mare incoraggiandoli, però, a farsi ben conoscere e stimare prima che arrivino da noi ed evitando che la loro accoglienza sia un onere di non facile adempimento per lo Stato. Andrebbero certamente da chi li aspetta, da chi se n’è assunto il carico e le spese e farebbero certamente del loro meglio per rendersi autonomi.