Se il Papa sale a Barbiana

di Edoardo Martinelli, allievo di don Lorenzo Milani e coautore della Lettera a una professoressa

Barbiana: la prima volta che vi arrivai nel ‘64 era isolata dal mondo. Pochi intellettuali salivano la rampa di sterrato che conduceva fino alla Scuola in vetta al monte Giovi. Mi ricordo di La Pira e di Ingrao, di Fioretta Mazzei e di Giorgio Pecorini che con lui aveva portato il giovane Oliviero Toscani.
Lorenzo, per quanto colmo dell’affetto del popolo di San Donato e di Barbiana, era ormai dimenticato anche dai vecchi compagni.

Dalla metà anni ‘60, suoi allievi erano diventati i famosi Gianni, ossia i bocciati. Spinti dal disagio, abbiamo però vissuto la Scuola nel suo momento più ricco: quello in cui il Priore passerà da un isolamento pressoché totale ad atti di solidarietà che coinvolgeranno milioni di persone a ripensare, insieme a lui, la scuola e la società. Ma col rischio della strumentalizzazione: “Nella vita mi hanno perseguitato, ma da morto mi esalteranno. Voi però difendetemi da ogni sorta di mistificazione”.

La nostra provocazione nella Lettera sembrava ironica: “saliranno tutti, dal primo ministro all’ultimo dei bidelli”. Poi, ci fu davvero la prima visita: di Luigi Berlinguer; e dopo di lui dal nostro angolo remoto sono passati tutti i ministri dell’istruzione, in pompa magna. A fare promesse mai mantenute. E poi politici d’ogni sorta, avvolti nel tricolore davanti alla sua tomba… solo per replicare logiche di potere.
Finalmente, a cinquant’anni dalla morte, arriva addirittura il Papa. Anzi, lui, Papa Francesco!

Le proposte di santificazione giunsero presto: sia dal mondo laico di sinistra (Enriques Agnoletti) e di destra (Indro Montanelli) che da religiosi autorevoli (come Turoldo e Balducci).
“Altari o no, Lorenzo resta quello che è, e io non lo vedo diversamente da come l’ho sempre visto”, rispondeva la mamma a chi la interrogava nel lontano luglio del ‘70. Don Raffaele Bensi, che lo conosceva interiormente e già lo vedeva come un padre della Chiesa del nostro tempo, pensava che la sua canonizzazione sarebbe stata “un atto di grande coraggio”, anche se “i suoi ‘miracoli’ ci sono già, visibili nei suoi scritti e nel suo lavoro”.
Pasolini definì tale lavoro “l’unico atto rivoluzionario di questi anni”.
Del resto, poco prima di morire, lo stesso Priore, ironizzando sui criteri di beatificazione della Chiesa, ci disse: “Io non sarò mai il santo dei miracoli!”.
Ma da allora cosa è cambiato?
Fossimo “giudicati” coi criteri della scuola di oggi, coi ridicoli BES, noi, i ragazzi di Barbiana, saremmo stati tutti “deficienti” di qualcosa: tutti svantaggiati o “non idonei”. Eppure, non siamo venuti fuori così male: Francuccio nel consumo critico e Paolo nella tutela dei consumatori, Maresco nel sindacato, Michele in politica, io e altri nell’educazione e nell’impegno sociale. Ciascuno ha trovato la sua strada a partire da lì, dalla sperduta canonica di Barbiana. A dimostrazione del fatto che la scuola, se funziona, non conosce emergenze e situazioni border-line insuperabili.
E se dovessi dire quanto dell’insegnamento del Priore e dell’esperienza di Barbiana sia presente nelle varie riforme della scuola italiana proposte dai ministri “pellegrini”, nonostante i loro proclamati propositi, troverei serie difficoltà. Direi: niente o quasi nulla.
Perché manca il coraggio di cambiare, anche da parte degli insegnanti, e di farlo sul serio? Necessitiamo di una riforma radicale che riporti la scuola al contesto di realtà e che destrutturi completamente i criteri della “buona scuola”: a partire dal “tempo” e dallo “spazio” scuola. Facciamo muovere sulla linea del tempo le parole come personaggi (l’esercizio più bello che ho appreso dal Priore Maestro): tutto tornerebbe vivo, e scuola (“scholé”, in origine tempo dell’indugio e della lentezza) tornerebbe a essere il luogo della riflessione e della presa di coscienza. Tempo liberato dalle fatiche perché ci rende simili a colui che ci ha creati.

Nei punti per un programma innovativo della scuola italiana, fatti votare dal Movimento 5 Stelle e, in particolare, nel Documento “Cambiare la scuola si può!” (elaborato da un meet-up di Cosenza, di cui anch’io faccio parte) ho trovato finalmente continuità con alcuni degli aspetti metodologici fondanti la pedagogia di don Milani.
Primo fra tutti la relazione maestro-allievo, fruttuosa quando hai a che fare con gruppi di 15-18 unità al massimo. E poi la socializzazione e l’apprendimento vissuti in laboratori piuttosto che nelle classi (banchi e sedie servono solo se sono funzionali all’obiettivo da raggiungere); nonché due degli aspetti che ricorrono sovente nei miei interventi: l’apprendimento contestuale e olistico, che procede dal motivo occasionale a quello profondo. Dalla motivazione agli obiettivi curricolari.

L’adozione di criteri di valutazione del tutto diversi (chiudiamola una volta per tutte con la storiella pedagogica dei voti) e, non ultimo, l’obiettivo di formare “cittadini sovrani”, responsabili di se stessi e della collettività umana, dell’ambiente, amanti e costruttori della pace, per i quali la sciocca obbedienza non è più una virtù…

Cos’altro ci sarebbe da beatificare in don Lorenzo se non questa ricchezza che il maestro ha lasciato a tutti noi e che abbiamo il dovere di riversare in una scuola finalmente aderente alla realtà, cooperativa e solidale?