Il debito pubblico italiano nell’eurozona

di MoVimento 5 Stelle

Un mostro, un indomabile drago dalle tre teste. Il debito pubblico appare difficile da mettere sotto controllo. Però c’è una via per renderlo sostenibile, per imbrigliarlo: quel che conta non è tanto il suo valore assoluto, quanto il rapporto con la ricchezza e la crescita. Una vera riconversione economica può condurre a quell’aumento della produttività che è decisivo per migliorare il denominatore e, quindi, per alleggerire il nostro stock.

Se ne parlerà al convegno “The italian debt in the eurozone“, lunedì 3 luglio, dalle ore 8.30, alla Camera dei deputati (Auletta Gruppi). L’evento è patrocinato da Montecitorio e vede la partecipazione di grandi studiosi italiani e internazionali che riceveranno il saluto iniziale del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Per partecipare al convegno iscriviti qui: bit.ly/3luglio2017

Si discuterà, appunto, circa la migliore strategia di rientro nel rapporto debito/Pil. Si farà un’analisi delle inefficienze dell’Eurozona e in merito alla fragilità della architettura della moneta unica. Si parlerà della moneta fiscale quale compromesso di fronte al problema della sovranità monetaria delegata al livello sovranazionale. E si ragionerà sulle possibili reazioni dei mercati di fronte ai vari scenari.

Saranno presenti, tra gli altri, Jochen Andritzky, segretario generale del Consiglio di esperti economici della Germania che con il banchiere ed economista Rainer Masera e il celebre editorialista del Financial Times, Wolfgang Munchau, parleranno dell’incrocio tra debiti pubblici, guai bancari ed economia reale. Heiner Flassbeck, docente all’Università di Amburgo ed ex consulente del ministero delle Finanze tedesco, si occuperà dell’andamento delle diverse economie dell’Eurozona e interloquirà, tra gli altri, con Brigitte Granville, della Queen Mary University of London School of Business Management. Tra gli italiani interverranno Marcello Minenna, docente alla Bocconi e alla London graduate School of Mathematical Finance, Gennaro Zezza, dell’Università di Cassino e Alberto Bagnai. Una tavola rotonda sarà poi dedicata alla visione della comunità finanziaria e, tra gli altri, sarà presente Meyrick Chapman, portfolio manager di Elliott.

La politica monetaria della Bce, con un Quantitative easing (alleggerimento quantitativo) che vale complessivamente 2,3 trilioni di euro, ha portato indubbi benefici al debito pubblico italiano in termini di minore spesa per interessi. Quest’ultima è scesa a 66,5 miliardi nel 2016, con un risparmio di 17 miliardi rispetto al 2012 e 47,5 miliardi in termini cumulati. Tuttavia lo stock debitorio della Penisola tocca i 2.270 miliardi di euro ed è vicino al 133% del Pil (siamo i peggiori dopo la Grecia a circa il 180%). D’altra parte l’inflazione, che notoriamente aiuta a rendere più sostenibile il nostro carico finanziario, non riprende in Eurozona il passo che il presidente della Bce Mario Draghi auspicava: a maggio la crescita media dei prezzi a consumo su base annua si è attestata all’1,4%, secondo la stima preliminare Eurostat, contro l’1,9% di aprile. Ma soprattutto quella “core“, cioè depurata delle componenti più volatili quali alimentari ed energia, si è fermata a +0,9%, al di sotto delle aspettative.

Draghi, che ha l’obiettivo di avvicinarsi al 2%, frena dunque il tapering, l’uscita dal Qe. Il ritmo di acquisto di titoli del settore statale (bond sovrani, di agenzie e istituzioni pubbliche) e del settore privato (Abs, covered e corporate bond) proseguirà al ritmo di 60 miliardi mese almeno fino a dicembre 2017 e potrebbe prolungarsi con un’uscita molto morbida. Nel frattempo, come gestire al meglio il nostro debito pubblico di fronte all’impossibilità di utilizzare in modo autonomo la leva monetaria e in ragione della scarsa possibilità che si avveri a breve la prospettiva di emissioni comuni (cd “eurobond“)? Le dismissioni di asset e società partecipate strategiche non rappresentano la via migliore da perseguire: i benefici sono risibili nell’immediato e successivamente si perdono spesso importanti entrate sottoforma di dividendi. Dal 1992, in un quarto di secolo, lo Stato ha messo sul mercato cespiti per un incasso equivalente a circa 170 miliardi. Eppure, nel frattempo, il debito pubblico nominale è passato dal 105% del Pil di allora al 133% già citato di adesso.

Al netto di una eventuale riflessione su quote di debito “non etico” e dunque potenzialmente irredimibile a seguito di un audit approfondito, la strada migliore per rendere più sostenibile la nostra esposizione appare quella di agire sul denominatore del rapporto debito/Pil, ossia sulla crescita. Le direttrici da perseguire? Rilancio del welfare pubblico, politiche di qualità e sicurezza del lavoro, forme universali di sostegno al reddito, ripensamento del sistema fiscale e investimenti produttivi mirati su missioni precise che favoriscano la conversione del sistema. Bisogna uscire dal dualismo Stato-mercato per pensare a uno Stato che crei il mercato, che potenzi la ricerca di base e spinga pure i privati a investire per generare produttività e valore aggiunto. Paradossalmente, fare deficit “buono” aiuta a ridurre il debito.

Dunque, serve una discussione profonda in sede europea sulle regole che riguardano il consolidamento dei conti e sui margini di spesa in seno alle stesse regole attuali. Una discussione che si dovrà portare sul tavolo della Commissione Ue e dei partner continentali.⁠⁠⁠⁠