Sui diritti dei lavoratori Tim non è raggiungibile

di Roberta Lombardi, M5s Camera

Sui diritti dei lavoratori Tim non risponde. Anzi, non è raggiungibile quando si tratta di proteggere le prerogative dei dipendenti.

Nel frattempo i giornali sono distratti da altro e mentre tutti parlano tanto di sicurezza nazionale, nessuno sembra preoccuparsi di un operatore telefonico così importante, un ex “incumbent”, come si dice, o ex monopolista di un settore strategico, la cui rete è finita in mani straniere. Con tutte le incognite e i rischi del caso.

Il bretone Vincent Bolloré, con la sua Vivendi, ha scalato Telecom e si è assestato intorno al 24%. Ora la Procura di Milano lo indaga, assieme all’amministratore delegato Arnaud De Puyfontaine, per aggiotaggio nel tentativo di assalto a Mediaset. Una partita aperta e ad alta intensità politica, oltre che finanziaria. Un dossier nel quale Telecom potrebbe diventare merce di scambio (con un rischio “spezzatino”) e finire nelle mani di un altro francese: quello Xavier Niel, patron di Iliad, che dopo essere uscito di scena (aveva un 15% potenziale nell’operatore Tlc italiano) potrebbe clamorosamente rientrare grazie a una cessione da parte di Vivendi in chiave antitrust.

A nessuno interessano le sorti di una infrastruttura strategica in mani private (almeno finora)? E per giunta straniere? Senza dimenticare che sullo sfondo si staglia addirittura la sagoma dello stato francese attraverso il colosso delle Tlc Orange.
Solo il M5S si è posto il problema, partendo dalle condizioni dei lavoratori. Abbiamo chiesto conto al ministero del Lavoro prima in commissione e poi in aula, alla Camera. Il governo fa sempre spallucce e ci dice che “tutto va bene, madama la marchesa”.

Peccato che siamo di fronte al solito caso in cui il grande capitale scarica sul lavoro i rischi di impresa. Tim ha circa 50mila addetti diretti in Italia e altri 50mila dipendenti delle consociate. Il piano industriale dell’azienda potrebbe addirittura comportare fino a 17mila esuberi. Uno sproposito. Mentre, dall’altra parte, bonus e benefit fino a 55 milioni alla dirigenza, Flavio Cattaneo in testa, sembrano sempre intoccabili.

Il 6 ottobre scorso il management dell’operatore telefonico ha comunicato ai sindacati che a partire da quest’anno avrebbe disdettato gli accordi collettivi integrativi e si sarebbe avvalso di un contratto aziendale con cui avrebbe torchiato i dipendenti attraverso, tra gli altri, i seguenti strumenti: controllo a distanza; riduzione delle ferie; demansionamenti fino a due livelli; sospensione degli scatti d’anzianità; superamento del salario accessorio ai tecnici.
Intanto, è stata pure tagliata, già da giugno 2016, la tranche dei premi di risultato ai dipendenti. Peraltro, mentre i premi a questi ultimi sono parametrati sul margine incerto della singola azienda, quelli ai dirigenti, regolarmente erogati, vengono rapportati a tutto il gruppo.

Il pretesto per torchiare i lavoratori? Il 7 febbraio scorso, in un incontro al ministero del Lavoro, il management Tim riportava una serie di indicatori economici a sostegno del presunto andamento negativo della redditività e della produttività aziendale, tra i quali: ricavi in calo; costo del lavoro stabile malgrado il ricorso alla solidarietà; contrattazione di secondo livello antistorica o comunque inadeguata a sostenere il rilancio. A quanto risulta dallo stesso nuovo piano industriale, i dati sarebbero in realtà diversi. Negli ultimi cinque anni, infatti, i ricavi hanno conosciuto un incremento pari a circa l’1% annuo. Il costo del lavoro è stato nel frattempo ridotto di circa 41 milioni di euro per anno e la contrattazione integrativa ha già dato buoni risultati. In soli due anni, inoltre, la copertura del Paese in banda ultralarga da parte di Tim è passata dal 24% al 60%. E nel prossimo biennio saranno investiti complessivamente 11 miliardi di euro per giungere al 95% dell’Italia coperta dalla fibra ottica.

E’ stata quindi una scusa quella che ha condotto Tim a disdettare gli accordi sindacali del 14 e 15 maggio 2008 e a emanare il regolamento aziendale che peggiora le condizioni dei dipendenti. E’ la solita storia di una privatizzazione andata male: un management che non sa fare il suo mestiere, colpisce i lavoratori per ridurre i costi. La parola magica è proprio quella: privatizzare.

L’anno della dismissione di Telecom da parte dello Stato è il 1997, siamo di fronte alla “madre di tutte le privatizzazioni”, si disse allora. Due anni dopo ecco l’Opa a debito di Colaninno e soci. La “razza padana” spolpa l’azienda con tecnica da fondo locusta e lascia macerie dietro di sé. Quindi arriva Tronchetti Provera che prende Telecom Italia senza Opa e la spoglia del suo patrimonio immobiliare, facendo schizzare l’indebitamento finanziario netto dai 22 miliardi del 2001 ai 37 miliardi del 2006. Dopo ancora ecco il controllo da parte di Telco, scatola costituita da banche italiane e da Telefonica, una volta di più con tanti saluti all’Opa e alle garanzie per i soci minori.
Contro il massacro di Telecom Beppe Grillo ha fatto una delle sue storiche battaglie più importanti, ma ora c’è da difendere i dipendenti colpiti anche per colpa di un Jobs act che mette il datore in una posizione di forza.

Cattaneo ci dice adesso che Tim sta pure pensando a un marchio “low cost”
per la clientela che vuole servizi semplici e tariffe all’osso. Il M5S però farà di tutto affinché a diventare low cost non siano, ancora una volta, gli incolpevoli lavoratori.