Non voglio rappresentanti, sì alla democrazia diretta, di Michel Houellebecq

dal Corriere della Sera

Seduto sul divano del suo appartamento, nel quartiere cinese di Place d’Italie, Michel Houellebecq riflette su un momento cruciale nella storia d’Europa. A Roma nel fine settimana si celebrano i 60 anni dei Trattati europei, occasione di rilancio o possibile epitaffio di una Unione che non è decollata. Tra un mese si tengono in Francia le elezioni presidenziali più importanti degli ultimi anni, perché il destino del continente cambierà radicalmente a seconda che il vincitore sia l’europeista Emmanuel Macron o la nazionalista anti Ue Marine Le Pen. Lo scrittore francese vivente più celebre nel mondo, una sigaretta dopo l’altra, affida al Corriere il suo sguardo, come sempre duplice: immerso nella realtà e pronto a superarla. Nei suoi romanzi ha descritto o anticipato alcuni tra i grandi temi del nostro tempo: l’estensione della logica capitalistica ai rapporti sentimentali, il terrorismo, le biotecnologie, la stanchezza dell’Europa tentata dalla sottomissione all’Islam. Oggi Houellebecq intravede la fine della democrazia per come l’abbiamo conosciuta finora: «Il sistema politico non funziona più, Macron sarà il presidente centrista di un Paese mai così a destra. Io non voglio essere rappresentato. Voglio essere consultato, di continuo, su ogni argomento. Auspico la democrazia diretta».

Pensa che i giochi per l’Eliseo siano fatti?
«Sì, credo. In testa al primo turno arriveranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen, e al ballottaggio vincerà Macron».

Il candidato della destra François Fillon non ha più chance?
«Era il favorito ma ormai è stato travolto dallo scandalo. La storia lo giudicherà severamente, ha deluso in modo grave sul piano personale».

Alle passate elezioni lei non è andato a votare, giusto?
«No infatti».

E stavolta che farà?
«Mi asterrò con particolare entusiasmo».

Non vuole essere un’imbeccata, ma Marine Le Pen propone cose non lontane dalle sue idee: l’uscita della Francia dalla Nato e dalla Ue, e anche più referendum. Che cosa la trattiene dal votarla?
«Ma Marine Le Pen parla del referendum per uscire dall’Unione Europea, cioè un tema che è lei a sottoporre ai cittadini. La democrazia diretta significa un’altra cosa: sono i cittadini a proporre dei progetti di legge da approvare tramite referendum. Quanto all’Europa, non penso che i francesi siano pronti a uscirne».

Perché?
«La Brexit è riuscita perché gli inglesi si sentono superiori, diciamo la verità. Sono convinti che la City non abbia paragoni, che la sterlina reggerà sempre, in fondo sono convinti che riusciranno meglio da soli. Mentre i francesi hanno un vero complesso di inferiorità rispetto alla Germania.Temono di non potercela fare senza l’Europa. Se venisse indetto un referendum sulla Frexit io credo che la risposta sarebbe no. Anche se difendo un’idea diversa».

Quale?
«Nella Carta e il Territorio dico che la Francia farebbe meglio a rassegnarsi alla nuova realtà economica, rinunciare all’industria e dedicarsi al turismo, alla gastronomia, al lusso. L’Italia mi sembra il solo Paese europeo che abbia gli stessi interessi, forse un’unione Italia-Francia potrebbe funzionare. Gli altri Paesi hanno vocazioni diverse. Non credo all’Unione Europea».

Ma gli europei non sono uniti dalla cultura, da secoli?
«Oggi c’è molta meno cultura europea di quanta ce ne fosse un tempo. Prendiamo la letteratura, per esempio. In Francia traduciamo soprattutto opere anglosassoni, e questo vale anche per il cinema e la tv, mentre a fine Settecento I dolori del giovane Werther elettrizzavano l’Europa intera. Nella maggior parte dei Paesi europei la gente compra libri locali e poi anglosassoni. Esiste una cultura locale legata al singolo Paese e una cultura globale anglosassone. Di cultura europea ne vedo poca».

Dopo la Brexit e Trump alla Casa Bianca, eventi segnati dall’appello ai cittadini scavalcando i possibili intermediari, il clima è più favorevole alla democrazia diretta?
«Non in Francia, dove restiamo fermi allo stesso schema: “Il popolo non è una cosa seria”. Eppure il solo Paese che pratica la democrazia diretta, la Svizzera, non mi sembra poco serio. Non credo affatto a questi argomenti».

Neanche alla necessità di una competenza, che i cittadini per forza non possono avere su tutte le questioni?
«La tesi di una presunta incompetenza dei cittadini è molto antidemocratica. Il voto del più ignorante vale quanto quello del più istruito. O siamo d’accordo su questo oppure affidiamo le decisioni agli esperti. Io preferisco la prima soluzione. Non so se dà migliori risultati, ma a quelli mi sento obbligato di aderire. Non è tanto una questione di efficacia quanto di giustizia».

In Italia il Movimento Cinque Stelle, primo partito secondo gli ultimi sondaggi, punta molto sulla democrazia diretta e sulla sua piattaforma digitale Rousseau.
«Non sapevo che in Italia il tema fosse centrale. Credo che sulla questione di fondo Beppe Grillo abbia ragione. La fattibilità tecnica è decisiva, adesso la tecnologia rende possibile consultare le persone in modo puntuale e l’alibi classico contro la democrazia diretta tende a cadere».

La sua scelta di astenersi alle elezioni è una forma di rifiuto della democrazia rappresentativa?
«Voto solo alle elezioni municipali. Altrimenti mi si chiede sempre un’adesione globale mentre io vorrei essere interrogato su temi specifici».

Qual è quindi la sua idea di democrazia diretta?
«Non ci sarebbe più un Parlamento. Montesquieu diceva che non si possono toccare le leggi senza tremare: le modifiche legislative sarebbero decise solo da referendum di iniziativa popolare. Anche la spesa pubblica sarebbe stabilita dall’insieme della popolazione. Ogni cittadino sa quanto vuole destinare più o meno all’educazione, alla sanità, ai trasporti. In terzo luogo i giudici sarebbero eletti. I cittadini sarebbero consultati sempre, dal numero dei professori nella scuola pubblica alla costruzione di un nuovo aeroporto, come in Francia per Notre-Dame-des-Landes. Io ho sempre votato ai referendum».

Anche a quello del 2005 sulla Costituzione europea. Votò no, vero?
«Già, e poi la scelta mia e della maggioranza dei francesi venne ignorata da Sarkozy per firmare il Trattato di Lisbona. Sono in molti a non averglielo mai perdonato, io di sicuro. La prima grande frattura mai rimarginata. Tornato in Francia dall’Irlanda dopo il 2012, mi sono accorto che il Paese era più a destra del 2007, ma aveva un presidente di sinistra, Hollande. Se anche fosse stato eccellente, quel presidente non rispecchiava la società».

Pensa lo stesso della fase che si prospetta con Macron?
«Sarà anche peggio, perché i francesi sono ancora più a destra rispetto al 2012. È una situazione spaventosa. Macron non ha colpe, presenta legittimamente un programma, ma la democrazia rappresentativa non funziona. Il sistema politico francese è fatto per garantire un’alternanza tra due blocchi, uno vagamente di sinistra moderata e l’altro di destra moderata, che hanno entrambi accanto delle formazioni più estreme. Ma nel momento in cui altre forze importanti appaiono sulla scena il sistema non funziona più. Anche se Macron è molto migliore di Hollande può portare a una catastrofe. La realtà politica non corrisponde alla società, è una situazione da nevrosi».

La democrazia diretta è populista?
«Quando sento qualcuno evocare il populismo so che in fondo quella persona è contraria alla democrazia. La parola populismo è stata inventata, o meglio recuperata, perché non era più possibile accusare di fascismo certi partiti, sarebbe stato troppo falso. Allora è stato trovato un nuovo insulto, populista. Sì, penso di essere populista. Voglio che il popolo decida su tutti gli argomenti».

La spaccatura tra élite e popolo, tra classe dirigente ed elettori, è molto attuale.
«Il principio di base della rivoluzione francese era che ci fosse uguaglianza tra cittadini in grado di decidere. Penso che sia un errore avere abbandonato questo principio, mai applicato del resto. Certe idee dell’Illuminismo sono state dimenticate».

Un’altra obiezione ai referendum come strumenti di democrazia diretta è che la partecipazione dei votanti non aumenta necessariamente, anzi. In Italia spesso i referendum non arrivano al quorum.
«Ma non si deve avere un’opinione su tutto, certe volte è lecito essere indecisi. Per esempio su temi come la procreazione assistita non so ancora che cosa pensare. Ma rispetterei l’opinione della maggioranza. La scarsa partecipazione non invalida l’idea dei referendum popolari, sono sempre meglio del sistema in cui le decisioni passano sopra le teste dei cittadini che non vengono consultati. Se su certi argomenti non ho un’opinione mi asterrei e lascerei decidere a quelli che un’opinione ce l’hanno. E il non avere votato non mi impedirebbe di considerare che la decisione presa merita il mio rispetto».

In Italia si cita spesso il precedente del referendum sul nucleare, tenuto poco dopo il disastro di Cernobyl. Gli italiani avrebbero detto no allo sviluppo del nucleare sull’onda dell’emozione.
«Ma i politici avrebbero fatto lo stesso, sono ancora più sensibili a quella che credono essere l’opinione corrente. I politici decidono in base a sondaggi di dubbia affidabilità».

In Francia c’è qualche uomo politico che si interessa alla democrazia diretta
«No, a un certo punto gli ecologisti puntavano molto su questa idea perché pensavano che la gente sarebbe stata del loro avviso, ma poi si sono accorti che non era così e allora hanno mollato. Ne parla un po’ Marine Le Pen perché pensa che la gente sia d’accordo con lei ma non è essenziale nel suo programma. In Francia è crollata la fiducia negli uomini politici ma non nella politica. Quando ero giovane conoscevo persone appassionatamente di sinistra e appassionatamente di destra, molti si identificavano nelle posizioni di partito. Oggi non è più così, è cambiata la partecipazione ma l’interesse per la politica continua. La divisione tra destra e sinistra non è scomparsa del tutto ma si sono aggiunti altri discrimini come sovranità nazionale o federalismo, liberalismo o statalismo. In ogni caso i francesi eleggeranno un presidente della Repubblica che non piace loro granché».

L’idea delle consultazioni popolari continue e onnipotenti è un po’ inquietante. Non pensa che sarebbe utile una qualche forma di garanzia e di controllo?
«Non credo che le persone siano irresponsabili. Né che la maggioranza prenderebbe decisioni irragionevoli. E non credo neppure all’argomento secondo il quale i cittadini sarebbero più emotivi dei politici. Non è la stessa cosa rispondere a un sondaggio o votare in un referendum. Non vedo svantaggi al fatto di votare anche una volta al giorno. Creerebbe un sentimento più forte di appartenenza a una società».