Passaparola: Israele Palestina, nessun vincitore – di Manlio Di Stefano

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«Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana.» Vittorio Arrigoni

“Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell’Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sionismo. Il sionismo, movimento di risveglio nazionale ideato da Theodor Herzl, si spinse dopo la sua morte fino a ritenere che la Palestina non fosse più un luogo di semplice pellegrinaggio, ma una terra occupata da stranieri che doveva essere liberata e popolata da ebrei, superando le origini stesse della religione ebraica, che prevedono l’attesa della venuta del Messia prima di poter tornare in Palestina. La Palestina quindi non è mai stata intesa come un futuro stato laico. Questa breve introduzione è fondamentale per comprendere l’ostracismo a soluzioni di pacifica convivenza che alle comunità internazionali appaiono di buon senso ma che, nella pratica, non sono mai state ricercate.

Un po’ di storia

1882 – le prime colonie: sulla spinta della nascente ideologia sionista si insediano le prime colonie di ebrei in Palestina;
1918 – occupazione britannica: la Palestina diventa una colonia inglese, i sionisti rappresentano non più del 5% della popolazione del Paese;
1948 – nascita dello Stato d’Israele: con la fine del mandato britannico in Palestina, la risoluzione 181 dell’ONU sulla spartizione della stessa e il ritiro delle truppe inglesi scoppia la prima guerra tra la componente ebraica e quella arabo-palestinese supportata da Paesi arabi confinanti. Il neonato esercito israeliano (Tzahal) ha la meglio e le forze arabe riescono ad occupare solo minime parti della Palestina (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). Alcune organizzazioni paramilitari ebraiche (Haganah, la Banda Stern e l’Irgun) avviano il cosiddetto “Piano Dalet“, che prevede, fra l’altro, la distruzione di villaggi palestinesi e l’espulsione degli abitanti oltre confine, aggressioni che causano la fuga di decine di migliaia di abitanti nei mesi seguenti. Il Regno Unito non sostiene il piano ma non fa nulla per impedirlo. Ricordiamo il massacro di Deir Yassin, del 9 aprile, con la guida del futuro Primo Ministro israeliano Menachem Begin;
1956 Crisi di Suez: Francia, Regno Unito e Israele tentano l’occupazione militare del canale di Suez ai danni dell’Egitto. La crisi termina quando l’URSS minaccia di intervenire al fianco dell’Egitto e gli Stati Uniti;
1959 – nascita di Al-Fatah: si tratta di un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, fondata da Yāser ʿArafāt, storicamente in conflitto con Hamas (organizzazione palestinese, di carattere politico, paramilitare e terrorista secondo l’Unione Europea) per il controllo dei territori palestinesi;
1963 – il Partito Ba’ath va al potere in Iraq e in Siria: tra gli obiettivi principali del Ba’ath c’è il sostegno della causa palestinese;
1964 – nascita dell’OLP: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina è un’organizzazione politica e paramilitare, considerata dalla Lega araba la legittima “rappresentante del popolo palestinese“. Il suo primo obiettivo è la “liberazione della Palestina” attraverso la lotta armata;
1967 Guerra dei Sei giorni: è il conflitto combattuto tra Israele ed Egitto, Siria e Giordania. Rappresenta il punto di non ritorno. L’inizio di tutti i problemi attuali. Il “Settembre nero“. E’ l’inizio della vera occupazione da parte di Israele: la Siria perde le alture del Golan, l’Egitto la Striscia di Gaza, che occupava dal 1948, e la penisola del Sinai fino al canale di Suez, la Giordania la Cisgiordania e Gerusalemme Est;
1973 Guerra del Kippur: il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur (una delle più importanti festività ebraiche) Egitto e Siria attaccano Israele per recuperare i territori perduti 6 anni prima; tuttavia le forze israeliane sconfiggono gli avversari nel giro di tre settimane. Nel 1978, con la mediazione del presidente statunitense Jimmy Carter, si giunge alla firma del trattato di pace di Camp David tra Egitto e Israele il quale prevede la restituzione del Sinai all’Egitto, rafforzando così il controllo israeliano in Cisgiordania. L’accordo firmato con Israele costa all’Egitto l’espulsione dalla Lega araba;
1987 – 1991Prima Intifada: segna la prima rivolta popolare palestinese contro l’occupazione israeliana. Porta a un numero stimato di 1100 palestinesi uccisi da soldati israeliani e coloni. I palestinesi a loro volta uccidono circa 160 israeliani e altri 1000 palestinesi accusati di collaborazionismo;
1993 Accordi di Oslo: siglati da Yāser ʿArafāt, per conto dell’OLP, e Shimon Peres, per conto dello Stato d’Israele, sono tuttora ritenuti centrali per la risoluzione del conflitto poiché sanciscono princìpi cardine come il mutuo riconoscimento e il ritiro delle forze israeliane da alcune aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania; inoltre affermano il diritto palestinese all’autogoverno attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese;
2000 – 2005Seconda Intifada: è la seconda rivolta palestinese. Stando alla versione araba è esplosa il 28 settembre, per colpa della visita, ritenuta provocatoria, dell’allora capo del partito Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro per musulmani ed ebrei situato nella Città Vecchia. L’Intifada avvia una successione di fatti violenti che proseguono per anni, assumendo i caratteri di una guerra d’attrito;
2004 – Concetto di “Territorio occupato“: la Corte Internazionale di Giustizia definisce “occupati da Israele” i territori palestinesi conquistati (compresa Gerusalemme est) a seguito della Guerra dei Sei Giorni. Nel febbraio 2011 le Nazioni Unite promuovono una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani appoggiata da 122 nazioni, tra cui l’Italia;
2006 – Hamas vince le elezioni nella Striscia di Gaza: considerata un’organizzazione terroristica, la sua vittoria elettorale causa il blocco dei finanziamenti al governo palestinese da parte della Comunità Europea e altre istituzioni occidentali ed arabe. Ciò contribuisce a far esplodere un grave scontro politico, e talvolta armato, tra Hamas e Al-Fataḥ;
2009 Operazione “Piombo Fuso: definita nel mondo arabo come il “massacro di Gaza“, l’operazione israeliana ha lo scopo di indebolire Hamas. Alla fine si contano 13 vittime israeliane e circa 1300 palestinesi;
2012 – la Palestina è riconosciuta “Stato non membro Osservatore Permanente” presso l’Assemblea delle Nazioni Unite: la risoluzione ONU, approvata con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astensioni, sancisce l’ingresso della Palestina nelle Nazioni Unite.

I giorni nostri

Torniamo ai giorni nostri, a sessantasei anni da quella che è definita da Israele «Guerra d’indipendenza» e dagli arabi al-nakba, ossia «la catastrofe»: la situazione è sostanzialmente immutata in termini di tensione politica ma drammaticamente stravolta in termini territoriali. Israele ha, infatti, occupato con insediamenti illegali di coloni, gran parte dei territori palestinesi, ha costruito un muro di divisione (dichiarato illegittimo dalla Corte internazionale di Giustizia dell’ONU) che costringe, opprime e riduce enormi aree arabe abitate, tutto ciò nonostante gli accordi di Oslo vadano proprio in direzione opposta.
Svariate associazioni si sono espresse sulle condizioni di vita nelle terre occupate; Human Rights Watch analizza nel dettaglio le operazioni israeliane di arresti arbitrari e di massa, le detenzioni ingiustificate, l’uso illegittimo della forza, la distruzione ingiustificata di proprietà privata, la demolizione delle case delle famiglie dei sospetti responsabili e altri membri di Hamas, gli attacchi contro abitazioni private e uffici dei media, nonché il ricorso sproporzionato alla forza letale.
L’organizzazione Pax Christi Italia denuncia uccisioni arbitrarie, perquisizioni notturne, danni a centri medici e commerciali, tagli dell’elettricità e delle linee telefoniche e mette in dubbio che lo scopo di tutto ciò sia “colpire indiscriminatamente la popolazione sotto occupazione e renderne impossibile la vita quotidiana al fine di continuare impunemente l’opera di pulizia etnica del territorio palestinese“.
Defence for Children International segnala “allarmanti e sistematiche violenze sui bambini palestinesi da parte dei coloni“.
Il giornalista israeliano Gideon Levy sostiene che “Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale. Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione“.
E’ in questo contesto che, con l’intento di acquisire maggior peso negoziale nell’ennesima trattativa di pace in corso tra le due parti, il 2 giugno 2014 nasce il governo di unità nazionale palestinese. Questo storico accordo tra Al-Fatah e Hamas segna una svolta storica per un governo tecnico d’intesa sotto la benedizione del presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas. Il solo annuncio dell’accordo, però, scatena la reazione di Israele che, per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu fa sapere di non tollerare la presenza di Hamas al tavolo delle trattative data la sua natura anti israeliana. L’ANP, infatti, dal ‘94 detiene il controllo di parte della Cisgiordania collaborando con Israele.
L’intento del nuovo governo è chiaro dalle parole del presidente Abbas “la visione della pace da parte della Palestina è chiara ed è fermamente basata nei principi del diritto internazionale […] Di conseguenza la sovranità dello Stato palestinese e di Israele, come definito dai confini del 1967, deve essere rispettata.” Sostanzialmente, fino a quel momento, Israele ha trattato esclusivamente con l’ANP in Cisgiordania e ha considerato Hamas il nemico da cancellare nella Striscia di Gaza, oggi non ha più questa certezza. Questo passaggio segna probabilmente l’inizio del tracollo cui stiamo assistendo ma, la scintilla che dà il via al fuoco armato, è il ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi israeliani rapiti il 12 giugno in Cisgiordania, la cui uccisione è addossata a Hamas da Benyamin Netanyahu, con un «la pagherà», nonostante la smentita unanime e la netta presa di posizione del presidente palestinese Mahmoud Abbas.
Da quel momento in avanti assistiamo a vendette come l’orrendo omicidio del diciassettenne palestinese Mohammed Abu Khdeir e i razzi di Hamas sul confine di Gaza ma, soprattutto, assistiamo a punizioni collettive da parte dell’esercito israeliano su tutta la Cisgiordania prima e Gaza poi. Tra le dichiarazioni più indicative che ho trovato, vi riporto quella di Miko Peled, attivista israeliano e figlio di un ex-generale poi convertitosi a sua volta in attivista per i diritti dei palestinesi: “ciò che sta accadendo (di nuovo) in questi giorni è una diretta conseguenza del criminale blocco imposto da molti anni su Gaza da Israele, in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani fondamentali della popolazione civile“.

Le violazioni del diritto

La violazione dei diritti, umani e internazionali, è la chiave di lettura più indicativa di tutta la storia israelo-palestinese. Potrà sembrare un ragionamento cinico ma, se si trattasse di una “semplice” guerra di attrito tra due Paesi confinanti, come le tante che purtroppo vediamo anche in Europa in questi giorni, non potremmo non considerare il principio di autodeterminazione dei popoli e quindi ignorare ogni stimolo interventista o di pressione internazionale. La questione israelo-palestinese, invece, ha una fortissima connotazione di violazione dei diritti. Dal lato palestinese Hamas si è strutturata come gruppo paramilitare e rappresenta una continua minaccia militare e terroristica, a causa del lancio di razzi, specialmente per i territori limitrofi alla Striscia di Gaza. E’ da condannare inoltre il ricorso alla pratica degli scudi umani e della detenzione arbitraria e tortura degli oppositori politici.
Israele dal canto suo ha subìto oltre 80 risoluzioni dell’ONU per la violazione dei diritti umani dei palestinesi e internazionali sulla gestione dei territori occupati. In particolare, l’Alto Commissario dei diritti umani dell’ONU, Navanethem Pillay denuncia le gravi violazioni di diritti umani contro i palestinesi nei territori occupati, la continua attività d’insediamento illegale, in violazione della legge internazionale, e la pratica della detenzione amministrativa. Tutte queste violazioni, non configurandosi come provvisorie, bensì incastonate in un progetto a lungo periodo, dovrebbero suscitare una dura condanna a livello internazionale e forse, il nuovo assetto politico dell’area mediorientale potrebbe influire in tal senso.

I nuovi scenari geopolitici

Rispetto al passato questa nuova escalation di violenza ha una connotazione totalmente differente perché legata a nuovi scenari geopolitici.
Non può passare inosservata la presa di posizione di Obama che ha esortato alla tregua e all’interruzione dei bombardamenti senza minacciare alcun intervento esterno, come avrebbe fatto in passato. L’area mediorientale è totalmente mutata nell’ultimo decennio. L’avanzata dell’ISIS in Iraq (con cellule in tutto il mondo islamico) e l’instabilità siriana hanno creato un’anomala dipendenza degli Stati Uniti dall’Iran rompendo la storica conflittualità con l’ “asse del male” e imponendo agli USA un’inusuale immobilismo.
D’altro canto il peso crescente della Russia su tutta l’aerea orientale del globo, manifestatosi chiaramente in Siria e Ucraina, ha messo nuovamente in moto meccanismi di controllo territoriale da guerra fredda spingendo Israele a cercare nuovi possibili alleati. E’ qui che entra in gioco l’Egitto. Fino al 2013, infatti, sotto il governo dei Fratelli Musulmani di Muḥammad Mursī ʿĪsā al-ʿAyyāṭ, la Palestina ha potuto usufruire della Porta di Rafah, al confine con l’Egitto, per rifornirsi di beni di prima necessità, aiuti umanitari e, purtroppo, anche armi per Hamas. Con la caduta del governo egiziano, l’instaurazione della dittatura militare di ʿAbd al-Fattāḥ Khalīl al-Sīsī e la persecuzione dei Fratelli Musulmani invece, anche quell’accesso è stato sbarrato creando, da una parte, l’indebolimento della guida politica di Hamas con la conseguente perdita di controllo sui militanti più propensi alla guerriglia (così si spiega l’incessante lancio di razzi verso Israele nonostante la netta inferiorità militare) e, dall’altra, una nuova opportunità per Israele.
Un’eventuale alleanza con l’Egitto permetterebbe, infatti, di svuotare del tutto il peso militare di Hamas nella Striscia di Gaza e puntare, un domani, alla riannessione dell’area all’Egitto. Quest’affermazione può sembrare fuori dalla logica sionista ma non lo è. Il principale problema oggi in Israele è la questione demografica, nonostante i piani di sostegno alle famiglie con più figli, il numero totale di arabi palestinesi è costantemente in ascesa. Si stimano, infatti, circa sei milioni di ebrei in Israele contro i tre milioni e mezzo di arabi in Cisgiordania e i quasi due milioni nella Striscia di Gaza (tra le aree con la maggiore densità di popolazione al mondo). Un’annessione “pacifica” delle due aree nello Stato d’Israele renderebbe troppo minacciosa la presenza araba sull’intera zona allontanandosi, tra l’altro, dall’idea originaria di sionismo che non prevede uno stato laico. A fronte di questa considerazione e del diffondersi degli insediamenti illegali nei territori cisgiordani, è presumibile che il piano di Israele preveda l’annessione esclusivamente di quest’ultima area data la sua estensione che permetterebbe una migliore distribuzione araba sul territorio. Una cosa è certa, il piano di Israele è lungi dall’interrompersi.

Il ruolo dell’Europa e la “rule-bound cooperation”

In tutto ciò, cosa fa l’Europa? Non è semplice persino immaginare l’immenso potere che l’Unione Europea ha, o potrebbe avere, in questo scenario. Lo strettissimo legame tra Israele e l’UE, infatti, nasce con gli Accordi Euromediterranei di Associazione del 1998. Gli stessi definiscono la libera circolazione delle merci tra l’UE e i paesi del Mediterraneo attraverso la progressiva eliminazione dei dazi doganali e il divieto delle restrizioni quantitative all’esportazione e all’importazione tra le parti contraenti.
Per anni si è commesso l’errore di separare l’azione economica con Israele da quella diplomatica sulla risoluzione del conflitto: questo non ha fatto altro che permettere a Israele di ignorare le raccomandazioni politiche e continuare a rafforzarsi economicamente e nel posizionamento strategico internazionale. Negli ultimi anni, però, stiamo assistendo a un graduale quanto inarrestabile cambio di strategia.
Nel 2013, per la prima volta, l’Unione Europea ha pubblicato delle linee guida che sanciscono che «tutti gli accordi tra lo Stato di Israele e l’Unione Europea devono inequivocabilmente e esplicitamente segnalare la loro inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967, e cioè Alture del Golan, Cisgiordania inclusa Gerusalemme est e striscia di Gaza.».
Le linee guida sono basate su una decisione adottata dal Consiglio europeo nel 2012 e precedenti dichiarazioni UE, dove si riafferma che le colonie israeliane sono illegali secondo il diritto internazionale. Conseguentemente gran parte dei paesi europei sta adattando la legislazione interna inserendo il concetto di “rule-bound cooperation” che prevede il legame inestricabile tra una qualsiasi forma di cooperazione (economica o meno) e il rispetto di alcune specifiche norme. Dispiace in tal senso costatare il ritardo di Italia e Spagna. Per la prima volta i Paesi europei hanno lanciato un messaggio forte e chiaro: o Israele rispetta le regole del ’67 o non fa affari con noi. Il peso di questa strategia è evidente, anziché sbattere la porta in faccia all’Europa, Israele ha firmato gli accordi prendendo coscienza della sua dipendenza dagli aiuti del vecchio continente.
I passi successivi, in termini europei, potrebbero essere:
– Emanare nuove linee guida sull’etichettatura dei prodotti israeliani per garantire ai cittadini europei di poter scegliere consapevolmente un prodotto proveniente da una colonia illegale (come promesso dalla Ashton e bloccato, ad oggi, dal solito ricatto del “minano il processo di pace“);
– Notificare, a tutti gli operatori industriali, il rischio di sanzioni conseguenti ad accordi commerciali con aziende che operano nelle colonie;
– Rivedere gli accordi del ’98 sul dazio, eliminando i benefici per i prodotti provenienti dalle colonie;
– Favorire il meccanismo di controllo sui prodotti israeliani, basato sul CAP, da parte delle autorità doganali;
– Pretendere il risarcimento in caso di distruzione o sequestro di aiuti umanitari, in particolare nelle aree C (ovvero quelle a pieno controllo israeliano);
– Avviare una riflessione sul diritto di veto all’interno delle Nazioni Unite che ha permesso a Israele di ignorare, senza sanzioni, le oltre 80 risoluzioni emanate contro il suo operato in termini di rispetto di diritti umani. Lo stesso trattamento, infatti, non si è tenuto con l’Iraq che, con “appena” 16 risoluzioni, è sotto sanzione dal 1990.
Questa strada, a nostro avviso, segna l’unica possibilità per rafforzare il rispetto del diritto internazionale.

Il ruolo dell’Italia

L’Italia ha la possibilità di influire pesantemente nel processo di pace, sia con una chiara presa di posizione nel rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, sia in termini europei. Per quanto riguarda il primo, occorre subito chiarire che la storica amicizia tra Italia e Israele non può prescindere dalla legalità delle azioni di quest’ultimo. E’ necessario adeguare immediatamente la legge nazionale alle nuove linee guida europee e andare oltre interrompendo gli accordi militari tra i due Paesi (473 milioni di euro di esportazioni autorizzate solo nel 2013), come sancito dalla legge italiana 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi in conflitto o che violino i diritti umani. Per quanto riguarda il ruolo europeo, non possiamo sottovalutare l’enorme possibilità di indirizzare la realizzazione di quanto elencato in precedenza durante il semestre di presidenza italiano.

Il futuro

La situazione reale della distribuzione geografica e demografica del popolo israeliano e palestinese, nonché l’assenza di una reale volontà di giungere alla soluzione dei due stati porta a ritenere assolutamente limitante insistere sul rispetto degli accordi di Oslo. Nonostante la comunità internazionale sia ancora orientata in quella direzione, è sempre più grande il “think-tank” di personaggi, più o meno illustri, che tende alla soluzione dell’unico stato laico. Purtroppo questa soluzione, che prevederebbe la convivenza dei due popoli, non va di pari passo col pensiero della nuova presidenza israeliana in mano a Reuven Rivlin che, a differenza del suo predecessore Shimon Peres, è più incline alla soluzione dello Stato Unico ma con la cosiddetta “opzione giordana“, ovvero, con la totale espulsione degli arabi dalla Palestina verso la Giordania. Insomma, siamo ancora molto lontani dalla soluzione del conflitto, ma intanto possiamo fare la nostra parte in termini di pressione internazionale affinché cresca di giorno in giorno la consapevolezza che il rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali da parte di Israele è un dovere, con l’auspicabile conseguenza dell‘interruzione di ogni azione militare da parte di Hamas.
Manlio Di Stefano – portavoce M5S alla Camera dei Deputati