Olivetti, Italia

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articolo di Gavin Jones e James Mackenzie per Reuters

Ivrea, Italia, (Reuters). Il declino economico può assumere diverse sembianze. Nella città di Ivrea, nell’Italia del nord, somiglia a un campo da tennis in abbandono, pieno di erbacce, dove usavano giocare gli impiegati dell’Olivetti, il vecchio gigante dell’elettronica.
Negli anni ’80, Ivrea era la versione europea della Silicon Valley. Delle 50.000 persone impiegate dall’azienda, più della metà lavoravano in città, godevano di ottimi stipendi e di un gran numero di attività ricreative aziendali. Oggi i principali datori di lavoro in città sono l’azienda sanitaria e due call center, che insieme danno lavoro a 3.100 persone. L’Olivetti esiste ancora, ma è una piccola azienda di dispositivi elettronici. I suoi vecchi stabilimenti, veri gioielli dell’architettura industriale del XX secolo, sono state riallestite come musei, e oggi la maggior parte dei trentenni, che hanno ben poche opportunità di lavoro, vivono grazie alla pensione dei propri genitori.
Era un’epoca di grande eccitazione. Ma prima lentamente, e poi d’un botto, tutto è collassato“, dice Massimo Benedetto, 59 anni, di cui trenta da impiegato in Olivetti, da ultimo nei servizi di supporto alla clientela, ora in procinto di andare in pensione.
Ivrea è come una finestra aperta sul mutamento di un’economia nazionale che ha pochi uguali nel mondo sviluppato. L’economia del paese è cresciuta pochissimo dal 1994, e si è addirittura ritirata dal 2000 ad oggi. Una situazione che non ha uguali in nessun paese europeo né in alcuno dei 34 paesi dell’Ocse. Gli economisti prendono in considerazione un insieme di fattori per spiegare la crescita di lungo periodo dei paesi emergenti: le tendenze della crescita demografica e dell’occupazione; gli investimenti pubblici e quelli privati; la produttività del lavoro; e la forza delle componenti legale, amministrativa e istituzionale dello Stato. Dagli anni ’80 ad oggi l’talia è regredita in tutte e tre queste componenti.
Secondo uno studio di Confindustria, l’associazione degli industriali, più di 120.000 aziende manifatturiere hanno chiuso i battenti e nell’industria sono andati persi circa 1.200 milioni di posti di lavoro dall’inizio del secolo.
L’istantanea di breve periodo mostra un volto migliore. Gli investitori stanno danno al mercato un pò di respiro dopo le turbolenze che, nel 2011, hanno messo a rischio la permanenza dell’Italia nella moneta unica. Matteo Renzi, un energico primo ministro di 39 anni, ha fatto delle promesse ambiziose, ed è stato uno dei pochi leader dell’Unione Europea ad uscire rafforzato dalle elezioni europee del Maggio scorso. Renzi sta utilizzando la sua rinnovata forza politica per guidare la richiesta di politiche europee più orientate verso la crescita, ma la sua capacità di modificare veramente le cose è ancora tutta da verificare.
L’Italia rimane comunque il secondo paese manifatturiero dopo la Germania. Per proprietà di case e risparmio privato si colloca ai primi posti fra i paesi Ocse, e il livello di debito privato è relativamente basso. Italia Inc. ha delle figure di livello mondiale, come Luxottica SpA e Ferrero SpA, il produttore di Nutella. Eppure tutti gli indicatori economici puntano nella direzione sbagliata. Quella italiana va pensata come un’economia in ‘immersione‘, la cui degenerazione potrebbe avere un effetto sulla società dall’impatto simile a quello che la globalizzazione ha avuto sulla Cina, l’India o il Brasile.
La cronicità della precaria situazione italiana costituisce un rischio per l’Europa intera. Quasi tre anni dopo il rischio del collasso dell’intera eurozona per i rischi legati alla stabilità finanziaria, il debito dell’Italia è salito al 134% sul prodotto, superiore a quello di tutti i paesi Ocse, all’infuori del Giappone e della Grecia. A meno che il paese non riprenda a crescere, sarà difficile che riesca a ridurre il suo debito – rischiando così concretamente il default e la sua permanenza nell’euro.
Proprio come l’Italia, Ivrea è andata affondando negli ultimi 2 decenni. Accoccolata sotto le montagne imbiancate a nord di Torino, la città è tutt’altro che povera. Molti dei suoi 24.000 abitanti sono benestanti, proprio come l’Italia, che rimane la nona economia del mondo. La media dei depositi bancari è fra le più alte del paese. Ma migliaia di giovani hanno lasciato la città, con una riduzione della popolazione pari a un quarto dagli anni ’80 ad oggi. L’età media, oggi, ad Ivrea, è di 48 anni, di quattro anni superiore alla media nazionale, di 8 a quella di Francia e Gran Bretagna, e di 11 a quella degli Stati Uniti.
Il crollo della Olivetti ha dato vita ad alcune piccole e medie imprese, ma una miscela paralizzante di alta tassazione e vincoli burocratici rende rende loro la vita impossibile, secondo quanto dicono gli imprenditori locali.
Stefano Sgrelli, 58 anni, è un ex ingegnere Olivetti, che, nel 2009, ha fondato Salt & Lemon, una ditta che utilizza droni per la ripresa di immagini aeree per il cinema, la pubblicità e la cartografia topografica; si lamenta delle procedure burocratiche che lasciano di stucco i clienti stranieri e del tragitto ferroviario, penosamente lento, per cui si impiega più di un’ora per percorrere i 50 km che separano la città da Torino. “Cercare di competere con le aziende estere è come correre i 100 metri con un carico di 20 kg sulla schena” sostiene Stefano.

ECONOMIA in IMMERSIONE

I problemi dell’Italia sono milioni. Il suo tasso di natalità è il decimo più basso fra I 236 paesi e territori elencati dall’Ocse. Una percentuale di poco superiore alla metà della sua popolazione attiva ha un lavoro, e gli investimenti pubblici e privati, in proporzione al prodotto del 2013, erano, secondo la Banca d’Italia, al livello più basso dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli investimenti in tecnologia e ricerca, un elemento fondamentale per la crescita, sono fermi a circa la metà di quelli della Francia o della Germania, in proporzione alla rispettiva crescita economica, e a circa un terzo di quelli della Svezia, sempre secondo l’Ocse. Uno dei problemi è la dimensione delle imprese. L’economia italiana appare sempre più squilibrata e dipende da un bacino sempre più ristretto di piccole imprese di successo e con solamente un paio – fra cui quella automobilistica Fiat è la più nota – rimaste a competere con campioni europei della stazza di Siemens, Daimler o Alcatel e con I giganti americani tipo Apple e Google. Persino Fiat, che quest’anno ha annunciato il trasferimento della sede amministrativa in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna, non rappresenta più il volano economico che era un tempo. In Italia oggigiorno vengono prodotte meno automobili che in Spagna o addirittura in Slovacchia. Secondo l’istituto di statistica ISTAT, l’impresa media italiana impiega 4 dipendenti, e soltanto un’impresa su cento ne impiega più di 50. I milioni di piccole imprese, che un tempo erano considerate il punto forte dell’economia italiana, oggi ne rappresentano l’handicap. Dovendo affrontare, fin dagli anni ’90, un aumento della competizione, sono mancate loro le economie di scala e le risorse da investire in nuove tecnologie.
Come possiamo pretendere di competere nel mondo globale con imprese da 12 addetti?” si domanda Marcello De Cecco, professore di economia all’università Luiss di Roma.
I prodotti italiani sono scesi anche dal punto di vista qualitativo. L’Italia è specialiazzata in settori a media e bassa tecnologia, quali il tessile e le macchine per l’industria, che hanno uno scarso potenziale di crescita. I settori ad alta tecnologia, come i computer, l’elettronica e i prodotti farmaceutici, costituiscono soltanto il 6% delle esportazioni, un dato che mal sopporta il confronto con la media europea del 16%, secondo l’agenzia di statistica dell’Unione Eurostat.
Secondo l’Ocse Il sistema scolastico italiano produce meno laureati in percentuale sulla popolazione di tutti gli altri aesi europei. Nelle scuole superiori l’utilizzo del computer è limitato. La forza lavoro poco qualificata è una delle ragioni per le quali la crescita della produttività del lavoro – cioè la quantità che I lavoratori producono – è rimasta stagnante per più di un decennio ed è la peggiore dell’Unione.
La produzione complessiva dell’Italia è addirittura peggiore. Gli economisti definiscono ‘fattore di produttività globale‘ l’efficienza combinata del sistema legale, delle regole di mercato, del sistema di tassazione, della burocrazia e di altri elementi di sostegno alle imprese. Si tratta di un’espressione da specialisti che misura il livello di efficienza del sistema economico. L’Italia è il solo paese dell’Unione il cui fattore di produttività globale è in declino dall’inizio del secolo, secondo la Commissione Europea.
La qualità della vita ne ha risentito pesantemente. Secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 1994 in Italia il prodotto interno lordo per capita, in rapporto al costo della vita, era all’incirca lo stesso di Francia e Gran Bretagna. Oggi, è fermo all’80% degli stessi paesi. L’Italia è l’unico paese dell’Unione il cui Pil è sceso dal 2000 ad oggi.
Vito Tanzi, un economista e sottosegretario del precedente governo, che ha trascorso 26 anni lavorando con le economie emergenti per il FMI, dice che il paragone più appropriato che si possa fare è quello con l’Argentina, che nei primi anni ’90 rappresentava una delle maggiori economie mondiali; dopo decenni di instabilità politica, corruzione dilagante e crisi finanziarie ripetute, l’Argentina è ora al ventiseiesimo posto, appena dopo il Belgio, paese che ha un quarto della sua popolazione. L’italia forse non sarà un paese in default ripetuto come la nazione sudamericana, ma “si può capire tanto dell’Italia osservando l’Argentina“, dice Tanzi.

OLIVETTI, ITALIA

Non c’é un’unica ragione per il declino economico dell’Italia, cosí come non c’é un’unica spiegazione per il crollo dell’Olivetti. Camillo Olivetti fondó l’azienda nel 1908, avviando la produzione di macchine da scrivere di lusso. La ditta poi fiorì come pioniera nel campo dell’elettronica sotto suo figlio Adriano negli anni ’50, producendo nel 1959 uno dei primi computer completamente transistorizzati al mondo. Il suo primo personal computer, presentato nel 1965, venne usato dalla NASA nella pianificazione dell’atterraggio dell’Apollo 11 sulla luna. L’azienda produsse anche la prima macchina da scrivere elettronica al mondo, nel 1978.
L’Italia prosperò negli anni ’60 e ’70, e divenne, da economia povera e principalmente rurale che era nel dopoguerra, uno dei paesi fondatori del G7, il Gruppo dei Sette paesi industrializzati. Era rinomata per il suo vigore e il suo stile grazie a figure come il direttore della Fiat Gianni Agnelli e come Enzo Ferrari, fondatore dell’azienda di automobili sportive e da corsa. L’Alitalia, sua linea aerea nazionale, era tra le piú ammirate a livello mondiale. Nel suo periodo d’oro, i prodotti all’avanguardia dell’Olivetti godevano di profitti che superavano fino a 35 volte i costi di produzione, che venivano poi reinvestiti in progetti di ricerca e innovazione nei laboratori di Ivrea e in California. Le vendite e i profitti conobbero un picco a metá degli anni ’80, quando il computer M24 vendette piú di 200,000 unitá negli Stati Uniti, portando l’Olivetti ad essere il secondo produttore di computer al mondo dopo l’IBM. “Lavoravamo al massimo per soddisfare la domanda,” racconta Massimo Benedetto camminando nello stabilimento deserto che una volta ospitava fabbriche e uffici per 8,000 impiegati.
Il magnate Carlo De Benedetti comprò l’Olivetti nel 1978, e all’inizio le cose andarono bene. Ma all’inizio degli anni ’90, con l’aumento della competizione dagli Stati Uniti e dall’Asia, De Benedetti iniziò a concentrarsi sul resto dei suoi investimenti: finanza, alimentari ed editoria. Lasció l’azienda nel 1996, e l’anno successivo quest’ultima vendette la divisione relativa ai personal computer, spostandosi nell’ambito delle telecomunicazioni. Era l’inizio della fine. Dopo una serie di complesse fasi di riorganizzazione, Olivetti si ritrovò ad essere una divisione di Telecom Italia, la quale tentó di rilanciare il business di macchine per uffici, rimuovendo addirittura la “O” rossa anni settanta, logo dell’Olivetti.
La nuova azienda non riuscì a decollare. L’Olivetti conta tuttora globalmente meno di 700 impiegati. L’anno scorso ha dichiarato 265 milioni di euro di fatturato, vendendo registratori di cassa, stampanti e la sua versione dell’Ipad, conosciuta come “Olipad“.

LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA

Molti a Ivrea criticano lo Stato italiano per non aver promosso una cultura tecnologica. Il fallimento cruciale, peró, fu quello che seguí la caduta dell’Olivetti: il nulla. In tutto il mondo aziende nascono e muoiono regolarmente. Il destino dell’Olivetti è stato condiviso da altri giganti industriali europei come l’ex compagnia telefonica finlandese Nokia, le aziende automobilistiche svedesi Saab e Volvo o la British Leyland in Gran Bretagna. Ad Ivrea si prestò poca attenzione alla rigenerazione, sia dal parte del governo che dai privati cittadini. Lo Stato, il quale si occupa della maggior parte dei fondi pensione del paese, offrí pensioni generose ai lavoratori dell’Olivetti che avevano perso il lavoro. Le politiche di prepensionamento sono uno dei motivi per i quali l’Italia spende piú denaro pubblico sulle pensioni in rapporto al PIL di tutte le altre nazioni europee: il 15 % contro l’11% della Germania e il 7% della Gran Bretagna. È anche il motivo per il quale gli impiegati che hanno perso il lavoro sono poco motivati ad affrontare nuovi periodi di formazione e a cercare un nuovo lavoro. Gli ex impiegati dell’Olivetti di Ivrea che si sono reinventati come imprenditori si sono concentrati soprattutto su prodotti esportabili. Antonio Grassino, un ex ingegnere dell’Olivetti che ha lasciato l’azienda nel 1986, ora guida una compagnia che collauda circuiti elettronici. La Seica SpA dá lavoro a 110 persone e ha un giro d’affari annuo di 21 milioni di euro, 80% dei quali povengono dall’esportazione. Tra i clienti ci sono la Boeing, Samsung e Thales.
Grassino, come molti degli imprenditori italiani di successo, dice che lavorare qui rende la vita piú difficile. L’instabilitá politica, dice, rende impossibile pianificare il futuro sia per le aziende che per gli individui. L’Italia ha avuto 65 governi nei 69 anni dalla Seconda Guerra Mondiale. Ogni nuovo governo disfa gli sforzi del precedente per iniziare tutto da capo.
Non si sa mai se un nuovo incentivo fiscale che viene annunciato sia davvero operativo e per quanto tempo,” dice. “Allo stesso modo non sono motivato ad assumere qualcuno adesso se penso che ci possano essere incentivi per nuove assunzioni nel prossimo futuro.
Per gli stranieri è ancora piú difficile districarsi tra normative e regolamenti in continuo cambiamento. Secondo l’OCSE gli investimenti esteri in Italia hanno subito un crollo del 58% negli ultimi sei anni e sono la metá rispetto a quelli che interessano la Germania, la Francia o la Gran Bretagna,
Stefano Sgrelli, il fondatore di Salt & Lemon, ha cominciato a lavorare in Olivetti nel 1980, dopo aver disegnato il software per un gioco elettronico. E’ stato in California tre anni per l’Olivetti, per lasciarla nel 1993, quando ha fondato un’impresa di servizi informatici con un vecchio collega. Dal 2009 si è dedicato, con quattro soci, alla Salt & Lemon, operando droni per una clientela sempre più vasta, spaziando dal cinema all’agricoltura. Come tanti a Ivrea, è esasperato dalla burocrazia. Prima di poter fatturare I suoi clienti in Italia, dice, deve dimostrare di aver versato i contributi previdenziali per i dipendenti. Eppure è difficile ottenere informazioni sulla situazione previdenziale da agenzie i cui registri non sono mai aggiornati. “Ciò spiega il successo che hanno all’estero tanti imprenditori italiani. Non riescono a credere quanto sia facile” ride sotto i baffi Sgrelli. Sua figlia Diana, di 22 anni, ha deciso di studiare ingegneria all’Università di Torino, ignorando quindi il consiglio del padre di andare a studiare all’estero. Lui spera che che si deciderà a partire dopo la laurea.
Se lo farà, si unirà a quello che ha tutte le caratteristiche di un esodo. Virtualmente prosciugata negli anni settanta col miglioramento degli standard di vita, l’emigrazione italiana è riesplosa negli ultimi 10 anni. Le stime dicono che, dal 2011, 250.000 italiani si sono trasferiti nella sola Londra, facendone la sesta città italiana più popolosa dopo Genova. La maggior parte di coloro che lasciano il paese sono in possesso di un diploma di scuola superiore o di laurea.
Luigi Zingales, professore di economia all’Università di Chicago, nonché uno degli economisti italiani più in vista, dice “Quando si ha di fronte un’organizzazione o un paese che non funziona, le soluzioni possibili sono due: la protesta o la partenza. La partenza riduce la pressione della protesta e di conseguenza la possibilità di un cambiamento all’interno“.
Renzi è l’ultimo, in ordine di tempo, che promette riforme. Sta lavorando per liberalizzare un mercato del lavoro ingessato, ha presentato un pacchetto di norme anti-corruzione, e si è impegnato a semplificare la burocrazia per le imprese, nominando addirittura un ministro per la ‘semplificazione‘.
Sgrelli si sforza di essere ottimista. “Credo che, seppur con incredibile lentezza, la situazione si evolverà,” dice, “ma parliamo in termini di generazioni, non di anni.”

Gavin Jones e James Mackenzie per Reuters