La strage degli innocenti della Terra dei Fuochi

Immagine: particolare della “Strage degli innocenti” di Giotto

In Italia non paga mai nessuno, ma per questi delitti, questa volta, qualcuno deve pagare
di Ilaria Puglia, pubblicato il 17 luglio su Parallelo 41, in occasione dell’imminente visita del ministro De Girolamo nella Terra dei Fuochi
“Caro ministro De Girolamo, che tra due giorni sarà qui, nella Terra dei Fuochi, vorrei raccontarle una storia, anzi, tre. Da donna a donna, da mamma a mamma. Vorrei spiegarle come l’assenza di controlli sui prodotti agricoli (perché in Campania i controlli non sono affatto capillari come dovrebbero) uccide. Come le mancate bonifiche uccidono. Come la dieta mediterranea (al veleno), da lei lodata, fatta a Caivano, Acerra, Giugliano, Orta di Atella, Succivo, Marcianise, e via dicendo, uccide. Le racconto la storia di Mesia, Francesco e Luca, 4, 8 e 19 anni. In genere i bambini e i ragazzi si descrivono per i tratti del viso o i giochi che amano di più, ma non stavolta. Stavolta glieli indico per quello che li ha portati alla morte: tumore, leucemia, inquinamento, Terra dei fuochi, follia. I loro genitori sono strani, sa? Sono intontiti dal dolore. Hanno una ruga profonda sul viso e occhi spenti. In quegli occhi, per quanti sorrisi possano venire dai figli rimasti, i fratelli, e dalla vita che ricorda ogni giorno che bisogna andare avanti, ci sarà per sempre un velo di opacità. Mai più trasparenza, mai più innocenza cristallina. L’innocenza, in quei genitori, è morta. Con Mesia, Francesco e Luca.
Antonella e Pasquale sono i genitori di Francesco De Crescenzo. Anzi, erano, perché Francesco non c’è più. È morto a 8 anni per un osteosarcoma con metastasi polmonari. Parole che suonano ancora più violente se associate a un bambino, parole che quel bambino non poteva capire. E che invece hanno dovuto capire, in qualche modo, i suoi genitori. Antonella e Pasquale hanno rispettivamente 36 e 40 anni, altre due figlie più grandi e la morte nel cuore. Abitano a Marcianise. Nella terra dove altre persone come loro hanno deciso di interrare rifiuti tossici, veleni e ogni porcheria che si possa immaginare. Francesco era un bimbo sorridente e gioioso, sa, uno di quelli vivacissimi che scendono le scale a due gradini alla volta perché sembra abbiano fretta di vivere.
Un giorno, a 6 anni e mezzo, Francesco si sveglia con un forte dolore alla gamba. I genitori, naturalmente, pensano subito a una botta, a uno strappo, perché il piccolo corre sempre, proprio non gli riesce di stare fermo. “Non avevamo idea“, dice Antonella. E come avrebbe potuto immaginare? Suona terribile anche solo a pensarla, una cosa simile. La pediatra quasi si infastidisce per tanta insistenza, da parte della mamma, a fargli fare una radiografia: “Disse che noi mamme siamo sempre troppo apprensive…“, racconta Antonella. E infatti gli prescrive una cura con una pomata e niente radiografia. Dopo 5 giorni, Francesco ancora si lamenta, non dorme più dal dolore. I genitori lo portano di nuovo dalla pediatra ma trovano la sua sostituta: la gamba di Francesco è gonfia e calda. “Ci disse di andare di corsa all’ospedale di Caserta – racconta Antonella – che avrebbe anche chiuso lo studio per accompagnarci, se volevamo“. A Caserta l’ortopedico lo capisce subito, appena vede l’orrore celato in quella gamba. Fanno finalmente la tanto desiderata radiografia e all’improvviso la dottoressa con la lastra in mano inizia a chiamare altri medici, tanti, nessuno parla. Tutti guardano la radiografia. Muti. L’ortopedico, alla fine, sentenzia: osteosarcoma con metastasi polmonari, il tumore più frequente in età pediatrica. Sa, ministro? Un’alta percentuale di casi di osteosarcoma si registra nelle aree altamente inquinate. “Era il 27 dicembre 2011 – continua Antonella – non dimenticherò mai quella data“. Francesco è morto per le metastasi, il 30 giugno scorso, dopo un anno e mezzo di calvario e 24 chemioterapie. A 700 metri da casa sua abita un’altra bambina malata. E non solo lei. Già, il caso. Colpisce sempre gli innocenti, il caso. Il medico del Pausillipon che li prende in cura durante la malattia di Francesco dice chiaramente ai genitori che la causa di questo orrore può essere l’inquinamento. “Francesco giocava e io preparavo la valigia per andare a fare le chemio – è questo il ricordo della mamma – Con lui non ho mai usato la parola ‘chemio’, la chiamavo solo ‘terapia‘”. Per proteggerlo, come se potesse, Antonella. Aveva tanta voglia di vivere, Francesco: “Mica devo morire, mamma?” chiedeva a chi gli aveva dato la vita, come se solo lei potesse rispondere. Al papà, invece, chiedeva aiuto: “Papà, aiutami tu“, diceva. “E io mi sentivo un vigliacco impotente“, dice Pasquale. Ora Antonella e Pasquale sono rimasti con le loro due figlie e ogni volta che una delle due sta poco bene entrano in ansia. “Ultimamente mia figlia si lamentava per il mal di testa – racconta Antonella – le ho fatto fare la risonanza“. Pasquale non vuole andare via da Marcianise: “E perché devo andare via? Per fare spazio a chi ha ucciso mio figlio?“, domanda. E noi restiamo in silenzio.
In ospedale Francesco ha conosciuto Mesia Nasi, 4 anni, di Succivo. C’è una foto che li ritrae insieme mentre giocano sul lettino, senza capelli ma sorridenti. Imma, la mamma di Mesia, sembra una bambina. Ha occhiali dalla montatura sottile e occhi innocenti e puri: “Io la mia lotta l’ho persa – esordisce – vivo per proteggere l’altro mio figlio che ha 3 anni. Se non ci fosse stato lui io ora forse non sarei qua“. Quando ha 3 anni, nel 2012, Mesia inizia ad accusare un dolore nel fianco, tanto da chiedere di continuo al padre di portarla in ospedale perché si sente male. E così inizia il giro dei reparti e dei medici. Qualcuno le diagnostica un accumulo di feci: una massa di 12 centimetri sotto il rene liquidata come stitichezza. Ma il pediatra di famiglia si insospettisce e li manda all’ospedale di Caserta. Da lì al Pausillipon il passo è breve. La diagnosi è una rasoiata in faccia: neuroblastoma surrenale. Sa, ministro? Negli ultimi anni diversi casi di neuroblastoma si sono registrati in Puglia, nella zona di Margherita di Savoia, dov’è attiva un’azienda chimica. Mesia viene operata, ma dopo due giorni il male ricompare, più forte di prima. La massa si riforma: 8 cm in due giorni. Un’aggressività mai vista: normalmente ci vogliono 5 mesi per raggiungere una dimensione simile. “Non ce l’aveva quando la portavo in grembo – si arrabbia Imma – In gravidanza sono stata seguita da un genetista perché abortivo. Mia figlia era sana“. Imma è molto attenta all’alimentazione della sua piccola, come tutte le mamme: brodino con verdure fresche, minestrone, lenticchie. Si fa comprare sempre sedano, carote e pomodori da sua mamma per il brodino vegetale. E adesso non si perdona. “Ci mandano a morire come gli ebrei ad Auschwitz – dice – Quello che vorrei dire, in piazza, è che quello che ha respirato mia figlia l’hanno respirato anche i loro bambini. Ho accompagnato mia figlia in chiesa per il suo funerale, ma avrei dovuto accompagnarla per la prima comunione, o per sposarsi! Quello che vorrei si capisse è che può capitare a tutti: il brodo lo danno tutti ai propri figli. Quella è una cellula che parte, basta pochissimo“. Mesia è morta a 4 anni, il 26 febbraio 2013.
E poi c’è Luca Lampitelli, 19 anni, di Orta di Atella. Quando incontriamo sua madre Angela (occhi azzurro mare e una dignità che solo gli sconfitti silenziosi hanno) crediamo di aver già sentito tutto ciò che le nostre orecchie e il nostro cuore di genitori può sopportare. E invece no, ci sbagliamo. Il calvario di Luca è durato più di 2 anni. Una storia in cui il Natale ricorre come un incubo: “Sono anni che non festeggiamo neanche più“, racconta Angela. Inizia tutto quando Luca ha 16 anni: all’inizio di dicembre 2009 viene colpito da una febbre continua. Un ragazzo attivissimo, che non si ferma mai, grande tifoso del Milan. Al pronto soccorso di Frattamaggiore gli danno l’antibiotico, ma al terzo giorno Luca diventa verde: non ce la fa a camminare ed è sempre stanco. Lo trasportano d’urgenza al Cardarelli e lì gli diagnosticano la malattia: leucemia linfoblastica acuta, una patologia tra le cui cause c’è l’inquinamento. “Nel reparto vedevo tutti senza capelli e non capivo cosa mi aspettava – racconta Angela – Anche Luca si interrogava e le altre mamme mi abbracciavano e piangevano“. Le prime chemio iniziano alla vigilia di Natale. Luca risponde bene, non si abbatte, è lui a consolare sua madre. Passano le feste in ospedale. Ad Angela dicono che gli hanno applicato il protocollo dei bambini, più efficace, e che starà bene. Ad agosto 2010 completano il primo ciclo della terapia, con le radio. Al controllo, a settembre, risulta tutto in ordine, ma a novembre entra di nuovo in terapia. Prima di allora i medici non hanno mai parlato della necessità di un trapianto. Quando gli chiedono dove preferisca farlo, Luca sceglie il San Martino di Genova perché gli amici conosciuti in ospedale gliene hanno parlato bene. Capisce, ministro? Luca gli amici se li era fatti in ospedale, tanto passava più tempo lì che altrove. A 17 anni. Il primo trapianto glielo fanno il 24 febbraio, grazie al fratello. Restano a Genova per 5 mesi, affittano persino una casa, Angela e sua figlia Giusy: “Mi è stata sempre vicino, si è persa un sacco di tappe della sua vita“, racconta sorridendo. Luca perde 11 kg per le normali conseguenze del trapianto.
Il secondo trapianto glielo fanno il 7 maggio 2012, stavolta la donatrice è la sorella. Il 7 dicembre 2013 torna da un controllo in ospedale e racconta che la dottoressa lo ha trovato bene. “Allora decidemmo finalmente di festeggiare il Natale – racconta Angela – gli dissi ‘Luca, che dici, vogliamo fare il presepe?’. Ma mentre scendeva in cantina a prendere l’occorrente arrivò la telefonata da Genova. Era l’11 dicembre. La dottoressa gli disse che la malattia era riapparsa“. Lui resta muto al telefono, poi prende le chiavi della macchina e esce, per rimanere solo. Riprende le chemio al Policlinico di Napoli il 20 dicembre. Poi il dramma. Il 29 inizia a non sentirsi bene. Ha i decimi di febbre, ma la notte la febbre sale a 40. La mattina dopo sviene: non cammina più, non si regge in piedi, la leucemia ha attaccato i muscoli. Riprende le chemio, mentre i medici controllano di continuo tutti i suoi organi, irrimediabilmente compromessi. La notte di Capodanno la passano così. “Io pensavo fosse come le altre volte – racconta Angela – ma mio figlio non reggeva neanche più il telefono in mano“.
Il 2 gennaio, Luca inizia ad avere problemi di respirazione. Prima lo attaccano all’ossigeno, poi lo portano in terapia intensiva. Il dottore dice che le cose “sono molto molto peggiorate“. Alle 11 del mattino i medici dicono ad Angela che sono stati costretti a sedarlo: “Non ci hanno neanche avvisati prima di farlo“, si commuove Angela. Trascorrono così dieci giorni. Luca ha tre arresti cardiaci, ma resiste. Vuole vivere a tutti i costi. Poi, il 12 gennaio 2013, non ce la fa più e muore. “Noi eravamo in ospedale, in sala d’attesa e loro chiamarono mio marito a casa per avvertirlo. Non ebbero neppure pietà di una povera mamma. Me lo fecero vedere su un tavolaccio della sala mortuaria“, piange Angela. La sorella di Luca si è laureata ieri: “Ma io non ci sono andata, lei ha detto che non aveva voglia di festeggiare, il fratello non c’è più“, racconta la mamma.
Nell’ospedale di Genova c’erano tante persone dalla Campania. “La dottoressa ci chiese che diavolo avessimo nel nostro territorio da determinare uno spostamento di massa simile“, racconta Angela. A novembre è morta un’amica di Luca, una ragazza che era entrata in ospedale poco prima di lui. “Luca mi disse che così come erano entrati in ospedale ne stavano uscendo, morti“. Luca si era diplomato a pieni voti nonostante non avesse frequentato la scuola a causa della malattia. Voleva fare l’infermiere, dopo il diploma. Era diventato un esperto di medicinali, ormai. Ma non ne ha avuto il tempo: la dieta mediterranea (inquinata), e i veleni, e i composti chimici, e la sua terra lo hanno ucciso. “Mio marito non riesce a guardare le sue foto“, dice Angela.
Ecco, ministro, le guardi lei le foto di Francesco, Mesia e Luca. E non dimentichi mai più.”