Indesit e la delocalizzazione selvaggia

In ogni iniziativa industriale non c’è valore del successo economico se non c’è anche l’impegno nel progresso sociale“. Questa frase è di Aristide Merloni, un imprenditore che Enzo Biagi, in occasione del centenario della sua nascita, paragonò a Enzo Ferrari ed Enrico Mattei: “Uomini che hanno avuto la forza di credere in quello che facevano, rimanendo attaccati alla loro terra“.
E’ il 1930, Merloni inizia la produzione di bilance industriali nelle Marche che offrivano solo emigrazione. Nel 1958 crea lo storico marchio Ariston che viene apposto su fornelli e cucine. Nascono nell’area marchigiana, con una disposizione che ricorda la costellazione dell’orsa maggiore, sette stabilimenti che rappresentano un nuovo modello di sviluppo industriale che non cerca il successo dove le condizioni sono più favorevoli. Per Merloni la fabbrica è un luogo destinato alla produzione e allo sviluppo del benessere locale. Una terra con prospettive precarie diventa un bacino ricco di industrie e di indotto produttivo. Merloni capisce che l’economia di scala dei grandi insediamenti è superata e che i rapporti umani nelle fabbriche valgono più delle dimensioni. Un modello di solidarietà che garantisce a tutti un ruolo importante.
Nell’area del fabrianese nasce una nuova figura: il metalmezzadro. Gli operai usciti dagli stabilimenti si riversano nelle campagne a curare i propri terreni evitando che si realizzi l’incubo prospettato dall’onorevole Palazzolo che nel 1964 durante la discussione dei contratti agrari disse: “Distruggete l’agricoltura per industrializzare e così distruggerete l’Italia“.
Questa storia di un’industria fatta di rapporti sani tra impresa, lavoratore e ambiente non ha un lieto fine. La settimana scorsa la nuova dirigenza subentrata alla famiglia Merloni nel mese di maggio ha annunciato un piano di riassetto che prevede 1.425 esuberi per gli stabilimenti di Fabriano, Comunanza e Caserta. Per il territorio fabrianese è l’ennesimo colpo di mannaia. Come MoVimento 5 Stelle abbiamo più volte denunciato anche a livello locale con i consiglieri comunali la strada che si stava intraprendendo raccogliendo indifferenza e scherno dalle forze politiche che governano il territorio compreso il presidente della Regione Marche Spacca.
La nuova dirigenza ha deciso che produrre in Italia non è conveniente e quindi le produzioni saranno spostate in Polonia e in Turchia dove da diversi anni lavoratori italiani altamente specializzati sono mandati a trasmettere le proprie conoscenze ai lavoratori locali. Da tempo i segnali erano chiari e le responsabilità evidenti. Nel 2007 la dirigenza annunciò un investimento di 80 milioni di euro per realizzare due nuovi stabilimenti in Polonia, e risalgono agli anni a cavallo del 2000 e al 2011 i finanziamenti che le Regioni Marche e Piemonte riversarono a pioggia sull’azienda per favorire quella che allora venne chiamata “internazionalizzazione” e che oggi appare come vera e propria delocalizzazione. Come si potrebbe definire altrimenti il progetto di un’azienda che va a produrre in Turchia prevedendo che l’80% del prodotto verrà esportato da quel Paese? L’obiettivo è far rimanere il lavoro in Italia. Non è un caso che le quotazioni dei titoli in borsa dall’agosto 2012 hanno triplicato il loro valore. Bisogna parlare di risarcimento. Se vogliono andarsene che se ne vadano ma lasciando qui in Italia sedi, capannoni, mezzi di produzione, macchine, progetti perché non è roba loro, ma frutto del lavoro e dell’intelligenza collettiva e alla collettività deve rimanere. Introducendo il concetto di “danno alla comunità“. Possiamo gestire noi le fabbriche, senza le esigenze e le ingordigie dei consigli di amministrazione si può produrre nel rispetto dei lavoratori e dell’ambiente garantendo a tutti un lavoro e un reddito dignitoso, tutto ciò si chiama “redistribuzione“.
Ci sentiamo ripetere ogni giorno che non siamo più competitivi. Secondo noi per uscire da questa situazione basta far rispettare i principi inseriti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Costituzione italiana dove viene dettata chiaramente una scala gerarchica dei valori: prima i diritti fondamentali e inviolabili presenti negli articoli 2, 3 e 4 in cui si legge che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” E ancora che: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” Negli articoli 41 e 42 questi valori vengono rafforzati mettendo dei limiti alla libertà dell’iniziativa economica privata che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e infatti “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali“, e alla proprietà privata che deve avere una funzione sociale.
Anche l’Europa si è espressa attraverso il codice di condotta delle imprese europee: “L’Unione Europea considera importante il ruolo che le imprese possono svolgere per lo sviluppo economico globale, ma sottolinea che nessuna impresa dovrebbe fare profitti da vantaggi competitivi che risultino dal mancato rispetto dei diritti del lavoro e dei requisiti ambientali e sociali“.
Invece assistiamo a un mercato in cui i Paesi in cui vengono offerte meno garanzie sono quelli che attraggono più capitale, lo Stato italiano attiva gli ammortizzatori sociali e le aziende investono il loro nuovo margine altrove. Crediamo che in questi casi debba essere applicato il principio della direttiva europea numero 35 del 2004: “Chi inquina paga” tradotto in “Chi danneggia la collettività risarcisce“. Patrizia Terzoni. M5S Camera