Il Parlamento del decreto Gelmini va chiuso

Le interviste del blog: Aldo Giannuli, docente di Storia Contemporanea
Università Statale di Milano

Il decreto dell’egida Gelmini è stato approvato. Il Parlamento è ormai esautorato. Non serve a nulla. Il Governo decide, decreta, ordina. Io propongo la chiusura della Camera e del Senato. I maggiordomi dello psiconano votano a comando. Hanno la maggioranza. Non discutono con l’opposizione (neppure con questa controfigura di opposizione) i testi delle leggi da approvare.
L’Italia è diventata una repubblica privata e presidenziale, comanda Testa d’Asfalto in nome e per conto dei poteri che lo hanno messo lì, in loro rappresentanza. Morfeo Napolitano è come se non ci fosse, stringe le mani e beve il tè. Il Parlamento è solo una spesa per il contribuente. Va chiuso. E, visto che ci siamo, chiudiamo anche la scuola, quello che resta della scuola dopo anni di ignavia dei governi. A cosa serve studiare se non avrai un lavoro, se non puoi partecipare alla vita democratica del tuo Paese, se vivi sommerso in un’informazione di regime? A sopravvivere? Ma a vent’anni sopravvivere è un insulto.
Ascoltate Aldo Giannuli, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano. Con il decreto Gelmini si tagliano fondi alle università e docenti. Tra “sette-otto anni, il corpo docente diminuirà di circa il quaranta per cento di unità”.
Loro non molleranno mai, noi neppure.
Ore 18.48: Cossiga è stato buon profeta. Oggi a Roma gli studenti sono stati picchiati da un gruppo di provocatori sotto gli occhi della Polizia. Chi sono i provocatori, chi li ha mandati, chi li ha pagati e, soprattutto, come hanno potuto arrivare con un camion in Piazza Navona?

Incidenti provocati a Piazza Navona, Curzio Maltese
Testo:
“La situazione dell’università è già una situazione disastrosa da molti anni, peraltro la Gelmini non ha tutte le colpe che le vengono date perché la Gelmini sta solo ultimando un percorso iniziato con l’ex ministro Ruberti e che va sempre più verso la privatizzazione dell’università e la sua trasformazione in impresa. Questo succede in un’università che già da tempo è ipo alimentata dal punto di vista finanziario. Strutturalmente, ormai, il sottofinanziamento fa parte della storia della nostra università.
Sono ormai più di 35 anni che la nostra università riceve mediamente un quarto in meno, in termini di bilancio statale, in termini di quello che riceve la media delle università europee. E’ l’università peggio organizzata, peggio pagata,sulla quale sono state fatte una serie di riforme sbagliate ed è ormai al limite del collasso. In questa situazione si aggiungono nuovi tagli e lei capisce che questo significa il colpo di grazia per una struttura già molto sofferente. Se la stessa riforma dice che per i prossimi anni si può mettere a concorso un posto ogni cinque di quelli che vanno in pensione, lei mi sa dire di quale meritocrazia stiamo parlando? Se non ci sono concorsi di che merito parliamo? Si dice uno su cinque fino al 2011 e dopo uno su due.
Ora, se lei considera che entro il 2014 noi collocheremo in pensione quasi il cinquanta per cento del corpo docente, questo significa che nel giro di sette-otto anni, il nostro corpo docente diminuirà di circa il quaranta per cento di unità. Quindi, tanto per cominciare cominciamo a chiederci perché ci sia riconoscimento ci devono anche essere occasioni per dimostrarlo altrimenti di quale merito parliamo? Meritocrazia è un concetto sul quale io sono profondamente d’accordo, a condizione che non sia solo una parola. Intanto la nostra società non è affatto meritocratica, non solo nell’università ma dappertutto.
Parentopoli c’è nell’università, basti vedere in quelle meridionali ma non solo, dove interi clan familiari si sono installati nelle facoltà universitarie. Però questa storia di parentopoli per esempio, c’è anche una magistratura se andiamo a vedere l’elenco dei vincitori dei concorsi. Non parliamo dei notai dove addirittura dove quello che dovrebbe essere un concorso pubblico si risolve in targhe del tipo: “..Tal dei tali notai dal 1830” perciò una carica manifestamente ereditaria di generazione in generazione da due secoli. Quindi qui c’è una società per nulla meritocratica e molto corporativa. Se poi vogliamo parlare di meritocrazia, e io sono d’accordo, occorre essere conseguenti, per esempio: esistono procedure, in tutto il mondo scientifico internazionale, di valutazione oggettiva delle opere scientifiche: l’impact factor, per quanto riguarda le citazioni, l’analisi dei fondamenti di ciascuna pubblicazione e tutta una serie di parametri prefissati. Perché non li adottiamo?
Siamo l’unica università del mondo sviluppato che non ha parametri oggettivi. Si rimette totalmente a un sommario giudizio delle commissioni che si risolve in: “Un tizio è bravo, quell’altro non è bravo. Perché? Perché lo dico io!” Questa è la premessa di Parentopoli. Se vogliamo introdurre la meritocrazia cominciamo almeno da questo, ossia a introdurre criteri bibliometrici internazionali, criteri di valutazione delle opere scientifiche con parametri oggettivi. Si prosegue in questa illusione che è stata anche di altri, iniziata sostanzialmente con l’ex ministro Ruberti, che è quella di fare come in America, che non ha molto senso perché ogni Paese ha la sua storia, la sua struttura economico sociale, ha i suoi condizionamenti, hai suoi problemi e deve trovare le sue soluzioni. Non si può fare qui, come fanno in America, posto che il modello americano sia più così eccellente, sicuramente preferibile e più funzionale del nostro è, ma non ha molto senso perché le stesse misure applicate in contesti diversi danno risultati diversissimi. Nel nostro consenso quel tipo di soluzione non dà l’università americana, ma dà Shanghai. Anch’io vorrei essere alto aitante ma non lo sono. E’ perfettamente inutile comprarmi un vestito da Schwarzenegger, mi andrebbe largo. Tanto varrebbe dire: “facciamo come si fa su Marte”.
E’ una riforma che applicata darebbe risultati disastrosi probabilmente, al di là delle intenzioni dello stesso ministro Gelmini i risultati sarebbero ugualmente disastrosi. Io provo immaginare cosa significa privatizzare le nostre università con capitale di banche e di imprese. Questo significherebbe smobilitare una serie di facoltà che ovviamente non interesserebbero. Penso ad esempio alle facoltà umanistiche dove sopravviverebbero si e no, una fettina di giurisprudenza ed una di economia, qualche pezzettino di scienze politiche, al massimo una scuola di interpreti e traduttori perché di una facoltà come letterature straniere non ce ne fregherebbe assolutamente nulla, in un quadro di università d’impresa. Avremmo una serie di facoltà scientifiche tutte proiettate immediatamente all’applicazione tecnologica e non di ricerca pura, e la formazione sarebbe ritagliata rigorosamente sulle esigenze delle aziende partecipanti al consorzio. Col risultato di produrre ingegneri che sanno tutto di quella determinata azienda, che se poi perdono il posto di lavoro mai più ne troveranno un altro perché non sapranno fare nient’altro. In ultima analisi è arrivato il momento di riprendere in mano la questione e di scegliere. L’università attuale è al capolinea, non ce la fa più.
L’università burocratica, corporativa che consuma risorse rendendo pochissimo al Paese non è più proponibile. Non possiamo continuare a chiedere risorse con una redditività così limitata. Noi abbiamo indici produttività scientifica tra i più bassi del mondo, abbiamo un tasso di laureati per iscritti tra i più bassi dei paesi sviluppati. Non possiamo chiedere risorse per questo. Non credo che la soluzione sia quella dell’università privata, io credo che sia arrivato il momento di pensare al modello e di arrivare ad un’università pubblico-sociale, sostenuta non solo dall’intervento dello Stato ma con la partecipazione azionaria dei dipendenti e di chi ci lavora con azionariato popolare, con azionariato temporaneo degli studenti. Rivedendo completamente la struttura dell’università dove la divisione fra ordinari e associati non ha assolutamente più senso. E’ il momento di riprendere il discorso del docente unico. E soprattutto di rivedere tutti i meccanismi, come si dice in America, di governance.
Non ha senso continuare ad avere questi organi formati per ceti come se stessimo parlando degli stati generali della Francia prerivoluzionaria nei quali gli ordinari votano per gli ordinari, gli associati votano per gli associati, gli studenti votano per gli studenti e così via. Abbiamo bisogno di un’università in cui si rovesci la piramide, sinora hanno parlato tantissimo di ordinari, e in particolare quel ristrettissimo nucleo di ordinari che governa tutto, hanno parlato un po’ gli associati, pochissimo i ricercatori e per nulla i lavoratori e gli studenti. Noi abbiamo bisogno di un’università in cui si senta molto di più la voce degli studenti, si senta abbastanza la voce dei ricercatori degli associati e dei lavoratori, e per un po’ di tempo gli ordinari, soprattutto quelli più importanti abbiano il pudore di tacere.” Aldo Giannuli