Da Banksy a Wikileaks, quando l’anonimato è libertà di espressione

Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie è stato scritto sotto falso nome da un accademico matematico che non voleva essere tacciato di infantilità in università. I Viaggi di Gulliver, che conteneva una feroce critica alla società contemporanea dell’epoca, fu pubblicato anonimo per paura di ritorsioni. Italo Svevo è lo pseudonimo con cui conosciamo un famoso autore triestino che aveva paura di essere perseguitato perché ebreo. Le opere di Banksy sono prodotte da un artista o gruppo di artisti per prendere in giro il potere e la società bene quando serve.

Wikileaks avrebbe pubblicato i documenti sulle guerre in corso in Asia e Africa se Assange avesse saputo della persecuzione e del carcere d’ambasciata che avrebbe dovuto subire?

Oggi il dibattito tra libertà di espressione e diritto all’anonimato è sempre più acceso, ma forse per affrontarlo nel modo corretto dovremmo farci le domande giuste. La libertà di espressione è necessariamente legata al riconoscimento di chi si esprime? Ci sono dei casi in cui vorremmo poter rimanere anonimi non necessariamente per commettere un reato? E soprattutto chi deve essere in grado di riconoscere chi si esprime, e quando? E quali confini geografici dovrebbero avere queste regole?

C’è chi propone l’identificazione obbligatoria con un documento di identità per potersi esprimere in Rete, ma prevedere l’identificazione esplicita lede il diritto di parola da una parte ed è un’assurdità tecnica dall’altra. Il clandestino, il fuggiasco, il perseguitato, il dissidente politico, il rinnegato e il pentito di mafia sarebbero tutti esclusi dal potersi esprimere sulla Rete.

Vogliamo veramente sottrarre alle persone emarginate dalla società la possibilità di partecipare liberamente al dibattito pubblico online?

Mi è capitato di vedere una moglie che sosteneva il Movimento, che avrebbe preferito non farlo sapere al marito perchè parlamentare di un altro partito, ma che è stata costretta a rivelarsi per sbugiardare un giornalista che la tacciava di essere a libro paga del Movimento. Mogli che non la pensano come il marito, dipendenti critici verso l’organizzazione per cui lavorano, persone perseguitate per la propria sessualità, persone soggette a persecuzioni personali di qualunque tipo dovrebbero sperare che la società estera che detiene i loro dati identificativi non decida mai di usarli contro. Quando parliamo di diritti di tutela nel contesto della cittadinanza digitale stiamo in realtà cercando di capire quale diritto è da proteggere maggiormente. Quello del singolo di potersi esprimere liberamente o quello della collettività di potersi tutelare dalle diffamazioni o ancora quello della collettività di potersi arricchire di opinioni di chi in assenza di adeguate garanzie di anonimato non le pubblicherebbe.

Identificare con il documento le persone prima che si esprimano non è utile, ma soprattutto non è possibile. 

La nostra identità al mercato. Oggi si ipotizza che i documenti di identità siano vagliati e custoditi da società principalmente estere come Facebook, Twitter e Google. Ma i casi come quello di Cambridge Analytica ci hanno insegnato che queste società potrebbero utilizzare i dati che condividiamo anche in maniera non opportuna basandosi su legislazioni degli Stati a cui fanno riferimento e non certo il nostro, e comunque sono soggetti privati che rispondono a logiche di mercato non a quelle della collettività. 

Isolazionismo digitale. Se il motivo di identificare le persone è quello di poter perseguire eventuali reati, in realtà questo è già possibile oggi. Con una denuncia alla polizia postale è possibile risalire a chi ha pubblicato un testo. A volte l’investigazione è resa difficile se chi scrive utilizza dei server stranieri (cosa molto facile anche per i meno tecnici) perché le rogatorie internazionali sono lunghe e spesso accantonate. Se si volesse rendere possibile la strada dell’identificazione con documento si dovrebbe immaginare una folle chiusura dell’Internet italiano dal resto del mondo, altrimenti non vi sarebbe alcuna limitazione del fenomeno. Se per creare un account Twitter italiano sarà richiesto un documento semplicemente si potrà far finta di essere in Francia per aprirlo. 

Il fardello sui giusti. Per chiunque conosca le dinamiche della Rete sa che con un minimo di conoscenza tecnica è possibile fingersi perennemente all’estero. Chi in modo fraudolento vorrà utilizzare la Rete per diffamare qualcuno semplicemente continuerà a farlo fingendosi all’estero. Il fardello dell’identificazione per potersi esprimere rimarrebbe quindi solo per coloro che la Rete non la vogliono utilizzare per diffamare, e le eventuali diffamazioni rimarrebbero comunque sempre lì. 

Tutte le volte che ci si avventura nel mondo dei diritti della cittadinanza digitale non si può prescindere dai tre diritti fondamentali che devono essere abilitati e protetti: l’identità digitale, l’accesso libero e gratuito alla rete e l’educazione civica digitale. Soprattutto non si può ignorare il fatto che la cittadinanza digitale e tutti i suoi diritti sono un fenomeno globale che non può essere normato in un Paese senza considerare il resto del mondo. 

Se vogliamo iniziare a ragionare sui nostri diritti digitali non diamo per scontato che possano essere traslate semplicemente leggi o meccanismi di altri media, iniziamo a creare una identità che possiamo utilizzare nei momenti importanti e che potremo spendere senza necessariamente fornire a terze parti tutti i dati che ci riguardano, ma solo quelli essenziali. 

Le soluzioni esistono:

  1. Creare una identità digitale statale per tutti in tempi rapidi con una carta d’identità elettronica che incorpori i servizi di Spid e della posta elettronica certificata per poter condividere con i servizi privati solo quello che serve, ma senza mai l’obbligo di utilizzarla per servizi privati.
  2. Non precludere ad alcuno di scrivere il proprio pensiero in Rete, ma evidenziare le caratteristiche di anonimità (ad esempio se la persona che lo ha scritto ha utilizzato tecniche particolari per mascherare la sua rintracciabilità, è giusto che chi legge lo sappia) e di attendibilità del testo linkando conferme e fonti a favore o contro.
  3. Sfavorire la visibilità nei motori di ricerca e nei social media dei testi scritti da parte di persone che usano tecniche di anonimizzazione assolute se pubblicano testi non corredati da fonti pubbliche.
  4. Definire dei protocolli di lavoro più veloci con gli Stati esteri con cui scambiarsi dati investigativi su reati diffamatori senza passare dalle lunghe rogatorie internazionali attuali.
  5. Creare un sistema più snello per gestire i reati diffamatori per esempio legandoli a risarcimenti economici immediati e contenuti, salvo se reiterati. Tuteliamo i diritti dell’individuo e della collettività in modo intelligente. Esiste il modo di avere più Banksy e meno diffamazioni. Costruiamolo.