Abiti usati, una miniera d’oro spesso in mano alla camorra

Il settore del riuso vale oltre 2 miliardi di euro. È una miniera d’oro per l’economia circolare, allunga la vita degli oggetti e permette di risparmiare le risorse necessarie per produrne di nuovi. In questo ambito, gli abiti usati rappresentano un segmento molto importante.

A fronte di aspetti molto positivi, il settore degli indumenti usati ha però un grave problema: la pesante infiltrazione mafiosa.

Per questo con la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Ecomafie, che ho l’onore di presiedere, stiamo svolgendo un’inchiesta specifica proprio su questo settore.

In una relazione inviata di recente alla Commissione, il Procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho cita alcune importanti inchieste svolte dai magistrati delle Direzioni distrettuali a Roma, Milano, Potenza. E proprio agli “stracci” è legato il primo omicidio di camorra in Toscana, avvenuto nel 1999 a Prato, uno dei due poli principali della filiera degli abiti usati in Italia. L’altro polo è la Campania, terra di origine delle famiglie camorristiche che tengono sotto scacco il settore. «I campani sanno bene che ad Ercolano non si vendono stracci se non si è legati ai Birra-Iacomino», ha dichiarato nel 2012, di fronte ai parlamentari della Commissione Antimafia, il magistrato Ettore Squillace Greco. A Ercolano si sta affiancando Caserta, piazza emergente nel settore.

La raccolta degli abiti spesso è gestita da cooperative sociali a sfondo benefico, attraverso cassonetti stradali che in più di un caso riportano il logo della Caritas. Purtroppo, però, come spiegava la Direzione Nazionale Antimafia già nel 2014 nella sua relazione annuale, «buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti».

Succede perché gli anelli della filiera dopo la raccolta sono gestiti in molti casi da soggetti affiliati ai clan o in rapporto con la camorra. E nelle loro condotte non mancano le irregolarità nella gestione dei rifiuti e nell’esportazione (in molti casi questi abiti prendono la via del Nord Africa). Inoltre, gli abiti di seconda mano vengono acquistati dai grossisti al chilo e rivenduti al pezzo: una modalità che, se non affiancata da specifici strumenti di controllo, lascia ampi spazi a riciclaggio di denaro ed evasione fiscale.

Tutto questo avviene alle spalle dei cittadini, che vedendo il logo Caritas (oppure donando alle parrocchie, ma parte del flusso si ricongiunge comunque a quello dei cassonetti) sono convinti di fare una buona azione e non sanno che potrebbe succedere ai loro vestiti.

In primo luogo, gli indumenti usati raramente vanno ai poveri: quasi sempre vengono venduti e gli stessi proventi non sempre sono usati a fini benefici.

In secondo luogo, la trasparenza della filiera è davvero poca: è facile avere informazioni sugli enti che si occupano della raccolta, spesso realizzata occupando soggetti svantaggiati, ma dietro questa facciata sugli anelli successivi cala il buio.  Le stesse Caritas, purtroppo, concedono il logo incassando delle royalty, senza preoccuparsi di ciò che avviene a valle della raccolta.

Per questo è molto importante il lavoro della magistratura per fare luce su questo settore.

In certi casi si è arrivati – a mio avviso giustamente – a sequestrare i cassonetti della raccolta, interrompendo così il flusso degli abiti che poi venivano gestiti illecitamente e finivano in mani mafiose.

Importante è anche intervenire sul fronte dell’affidamento della raccolta degli indumenti usati: le aziende di igiene urbana, alzando il livello di attenzione, attraverso i bandi di gara possono fare molto per avere sotto controllo la filiera e prevenire le infiltrazioni camorristiche. Durante un’audizione in Commissione Ecomafie, l’associazione di categoria Utilitalia ci ha detto che stava lavorando proprio a delle linee guida per rendere più efficaci gli affidamenti. Dopo mesi e mesi però, di queste linee guida non c’è traccia.  Con Utilitalia ci sarà la possibilità di confrontarci per capire con esattezza cosa stia bloccando questo percorso di autoregolamentazione verso la trasparenza.

Da parte nostra, non ci fermiamo. In Commissione continueremo a lavorare per ripulire il settore e liberare le potenzialità e le energie positive dalla cappa della camorra e dell’illegalità.