Radio Radicale e quei numeri che raccontano un’ingiustizia

Trecentotrenta. Sono i milioni che lo Stato ha erogato in favore di Radio Radicale. A tal proposito è bene fare chiarezza. Il MoVimento 5 Stelle non ha nulla contro questa radio privata, ma esistono dei principi fondamentali ai quali non si può derogare. Negli anni si è fatto un uso distorto del finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, che ha inquinato la politica e l’informazione.

Partiamo dai fatti di cronaca. Qualche giorno fa il PD ha proposto un emendamento al Decreto Crescita con il quale si concedevano a Radio Radicale altri 3 milioni di euro nel 2019, in aggiunta ai 9 milioni già stanziati precedentemente, e ad ulteriori 4 milioni nel 2020. A votare l’emendamento è stato tutto l’arco parlamentare, dalla Lega a Leu, passando per Fratelli d’Italia e Forza Italia. Gli unici a votare contro siamo stati noi. Ma da dove ha inizio questa storia?

Bisogna risalire al 1990, quando con la legge 230 vengono concessi contributi alle imprese radiofoniche private che abbiano svolto attività di informazione “di interesse generale”. Lo step successivo si ha il 21 novembre 1994, quando sotto il Governo Berlusconi, con un decreto del ministro Giuseppe Tatarella, viene firmata una convenzione che da allora eroga 10 milioni di euro ogni anno alla società Centro di produzioni S.p.a., ossia Radio Radicale, per la trasmissione delle sedute parlamentari. Come detto, in totale sono stati circa 330 milioni i milioni di contributi pubblici erogati, di cui 250 percepiti dalla radio come finanziamento diretto, a cui si aggiunge un contributo per l’editoria di 4 milioni l’anno, in quanto organo di partito.

A questo punto sorgono alcune domande. Radio Radicale è una radio privata, legata a un partito, che ottiene finanziamenti pubblici per svolgere un’attività “di interesse generale”, senza sostanzialmente alcun tipo di valutazione. Come è possibile tutto ciò?

Come si sa, oggi i soci di Radio Radicale sono con il 62,5% l’Associazione politica Lista Marco Pannella, con il 25% Lillo Spa che fa capo alla famiglia Podini, con un fatturato da 2,3 miliardi, il 6,17% è in mano alla commercialista Cecilia Maria Angioletti, e infine il 6,15% appartiene a Centro di Produzione Spa, società editrice di Radio Radicale.
Ebbene, quando nel marzo 2000 l’imprenditore Marco Podini entra nell’azionariato della società, lo fa acquistando il 25% di Radio Radicale per 25 miliardi di lire. In altre parole, Podini attribuisce alla società un valore totale di 100 miliardi di lire. Come è possibile che un’azienda che non genera ricavi sia valutata così tanto? La risposta è semplice e risiede appunto nel valore sproporzionato della convenzione stipulata, che negli anni ha garantito a Radio Radicale più di 300 milioni. E che fine fanno questi 25 miliardi di lire? Essendo un valore frutto dei contributi pubblici erogati dallo Stato in favore della radio, logica vorrebbe che finissero nelle casse della radio. Neanche per sogno. I soldi finiscono nelle tasche degli azionisti, cioè del partito. Un’operazione di finanza speculativa in piena regola.

Qualcuno potrebbe sostenere che Radio Radicale svolga un servizio pubblico, che non fa pubblicità e che quindi quanto incassato dallo Stato ha il solo scopo di finanziare un servizio che, viceversa, dovrebbe svolgere lo Stato stesso. Eppure tale ragionamento è smentito dai fatti e dai numeri. Eh sì, perché negli anni gli utili della società sono serviti anche a distribuire dividendi ai soci, come nel 2010 quando la società chiuse con un utile di 168 mila euro, ma il Cda deliberò di distribuire un dividendo di 600 mila euro. Ma non è tutto, perché i veri guadagni risiedono negli stipendi dei dipendenti. Come emerge dai dati pubblicati dalla radio stessa, il costo del personale dipendente ammonta a 4 milioni annui, a fronte dei circa 12 milioni di ricavi (8,2 milioni garantiti dagli introiti della convenzione, a cui si aggiungono i 4 milioni di euro di contributi dal fondo dell’editoria).

A Radio Radicale lavorano 52 dipendenti tra cui 20 giornalisti impiegati, a cui si aggiungono 650 mila euro per i collaboratori e 690 mila euro per prestazioni professionali. In tema di stipendi, spiccano il direttore Alessio Falconio e l’Ad Paolo Chiarelli che guadagnano intorno ai 100 mila euro lordi annui. Non male.
Il costo del personale sul totale dei ricavi ammonta dunque a circa il 33%. Sarà così anche nelle altre radio? Neanche per sogno. Nelle società radiofoniche italiane il costo del personale sul totale dei ricavi è pari in media al 5,6%. Una differenza abissale.

Ma Radio Radicale non ha ricavi pubblicitari” – sentiamo ripetere in continuazione. Certo, ci mancherebbe! È la condizione sancita nella convenzione. Ma facendo un’attenta analisi ci si accorge che qualcosa non torna. Radio Radicale, con i suoi 12 milioni di contributi pubblici e i suoi 209.000 ascolti di media (dato del 2014), risulta ricevere un finanziamento di 57,4 euro circa per ogni ascolto. Secondo la stessa proporzione la Rai si colloca a 14,6 euro circa ad ascolto.
Ma cosa succede nel mondo delle radio private? Prendendo come riferimento una radio che vive esclusivamente di introiti pubblicitari come Radio Kiss Kiss, che nel 2016 aveva ricavi pari a 7,4 milioni di euro, si ottiene un risultato ancora diverso. A fronte dei 2,917 milioni di ascolti, secondo la solita proporzione si ottiene una cifra pari a 2,5 euro di ricavi per ascolto.

A chiunque dovrebbe sorgere una domanda circa la sensatezza dei contributi pubblici erogati ad una radio privata di partito che opera nelle condizioni appena descritte. Né si comprende per quale motivo il servizio pubblico della Rai debba essere affiancato da quello di Radio Radicale. A riguardo della diffusione delle sedute parlamentari, si ricorda l’esistenza di un canale della Rai come GR Parlamento. La risposta a queste e ad altre domande probabilmente risiede nei lauti stipendi elargiti a Radio Radicale. Con buona pace dei soldi dei contribuenti e di tutte le altre radio private che ogni giorno si spaccano la schiena per andare avanti.