Dalla discarica al museo: quando i rifiuti diventano arte

Gli artisti visivi dall’inizio del Novecento a oggi hanno intrattenuto un rapporto continuo, appassionato, intimo, a volte dissacrante con il rifiuto, lo scarto, l’oggetto banale e anonimo.

Ne hanno sperimentato il potenziale estetico, scegliendolo e usandolo per la forma, il colore e il materiale, così lontani dalla tradizione dell’arte. Oppure ne hanno esaltato le valenze simboliche, frammento di un intero andato irrimediabilmente perduto, nel tempo e nello spazio.

Alcuni artisti hanno messo in evidenza del rifiuto lo statuto di rovina della Modernità e del suo falso mito progressista, con una sensibilità ecologica che si affaccia negli anni venti del Novecento sotto la spinta della meccanizzazione industriale e sopravvive ancora oggi nell’attualità dell’emergenza ambientale.

Altri hanno guardato al lato più intimo e privato dello scarto, pezzo di vita sopravvissuto all’abbandono di chi lo ha usato. C’è chi si è spinto fino a considerare arte i propri rifiuti corporei sotto forma di Merda d’artista; e infine chi ha esposto come opere d’arte gli scarti stessi della vita, come i cadaveri di animali sotto formaldeide.

Al di là di qualunque giudizio o opinione, il fenomeno del riciclo attraversa tutta l’arte contemporanea con declinazioni e risultati molto diversi tra loro ma un unico punto di origine. Dopo secoli di materiali preziosi, tecniche sofisticate e abilità manuali esibite nella ricerca di forme armoniose che imitassero la realtà o di composizione astratte che la negassero, ecco insorgere con prepotenza all’inizio del secolo breve una nuova esigenza: liberare l’artista dalla tirannia del saper fare e mettere al centro l’idea, il saper pensare.

Così un tale di nome Marcel Duchamp nel 1913 monta su uno sgabello di legno una ruota di bicicletta pretendendo che l’assemblaggio insolito dei due oggetti venisse considerato arte. Ancora più scalpore, e rifiuto da parte della critica e del pubblico, suscita la sua Fontana di qualche anno successiva: un orinatoio di ceramica, di quelli che si trovano nei bagni degli uomini, firmato dall’artista con uno pseudonimo ed esposto al contrario.

Nasce così il readymade, l’oggetto già fatto, seriale, trasformato in opera d’arte solo perché l’artista lo considera tale e non perché da lui creato. Il contesto in cui l’oggetto/opera viene esposto, e dunque guardato, fa la differenza: dal bagno pubblico al museo, è la cornice spaziale con i suoi significati che lo connota in modo nuovo e artistico.

Questo gesto provocatorio e apparentemente insignificante ha determinato un vero tsunami nel mondo dell’arte, aprendo una breccia nelle mura dorate del museo che da sempre proteggono ciò che per una comunità ha valore, lasciandovi entrare il reale e l’ordinario.

Dall’orinatoio alla spazzatura il passo è breve. Già i cubisti, Pablo Picasso e George Braque in testa, avevano introdotto nei loro dipinti pezzi di oggetti reali trasformandoli in collage; dopo di loro futuristi e dadaisti sperimenteranno materiali e tecniche diversi fino al celebre Merzbau di Kurt Schwitters, un intero ambiente, costruito a partire dal 1923, assemblando tridimensionalmente piccoli oggetti trovati dall’artista per strada o a lui donati, prelevati e sottratti al flusso delle merci, salvati pietosamente all’oblio ed esposti in una sorta di museo personale. Un’opera cresciuta negli anni su se stessa fino a invadere tutti gli spazi della casa.

L’artista può creare semplicemente attraverso l’atto di scegliere, prelevare, assemblare, collezionare perché nel farlo costruisce significati, attiva processi di pensiero.

Dopo le avanguardie storiche (Futurismo, Dadaismo, Surrealismo ecc.), nel secondo dopoguerra altri movimenti artistici come il Nouveau Realisme e il New Dada guarderanno ai rifiuti come a un materiale artistico da sperimentare: dalle vecchie carrozzerie di automobili compresse di César, ai tableaux-pièges, o quadri trappola, realizzati da Daniel Spoerri incollando su tavole di legno ogni singolo oggetto, inclusi gli avanzi, dei pasti consumati con gli amici: piatti, bicchieri, posate ecc. fino al gesto di Arman che per una sua mostra, dal titolo “Le Plein” (il pieno), tenutasi nel 1960 in una galleria d’arte parigina, decide di riempire lo spazio di immondizia impedendo di fatto l’accesso ai visitatori.

I rifiuti per Arman e molti suoi coetanei sono l’essenza stessa del mondo contemporaneo, della società dei consumi e della produzione industrializzata. Siamo in pieno boom economico e l’ideologia ottimista del progresso pervade ogni aspetto della vita e della cultura occidentali ma non convince gli artisti.

Gli artisti sono strani personaggi: ricettori più o meno consapevoli dei disagi dichiarati o taciuti della società, attraverso il loro lavoro è possibile seguire tracce sotterranee e versioni alternative rispetto alle narrative dominanti.

Così mentre negli Stati Uniti e in Europa si celebrano le magnifiche sorti e progressive della terza rivoluzione industriale, alcuni artisti, come gli esponenti dell’Arte Povera in Italia, denunciano il rischio per l’Uomo di alienazione dalla natura e dalla comunità, nell’esperienza straniante della catena di montaggio in fabbrica e della vita nelle grandi città industrializzate. È la fine dell’Italia rurale dei piccoli paesi e gli artisti la raccontano usando materiali nuovi, vivi, deperibili, destinati a trasformare le stesse opere d’arte in rifiuti.

Come l’opera di Giovanni Anselmo Scultura che mangia (1968): due pezzi di granito legati tra loro e separati da un cespo di lattuga, che progressivamente avvizzisce e perde volume mettendo a rischio l’equilibrio della scultura.

I materiali scelti sono poveri e privi di qualità estetiche proprie, scarti di produzione industriale esposti come tali: Mappamondo (1966) di Michelangelo Pistoletto è un’enorme sfera di giornali, di cui consumata la notizia, resta solo la carta; o la famosa Venere degli Stracci (1967): un calco in gesso di una scultura classica esposta al verso, di cui vediamo le spalle mentre il viso affonda in una montagna di stracci, gli scarti degli abiti una volta dismessi. L’opera è una rappresentazione contraddittoria ed efficace del contrasto tra il mito classico ed eterno della bellezza e l’informe, il rifiuto; tra la storia e il presente, tra ciò che è frutto della mano dell’Uomo e la produzione meccanica.

Altri stracci famosi sono quelli di Christian Boltanski, artista concettuale francese che lavora sui temi della memoria e del passato, personale e collettivo. Gli oggetti sono così ricordi e reperti con cui ricostruire storie diversamente destinate all’oblio. Le sue enormi cataste di abiti a partire dal 1973 sono tracce di un’assenza: i corpi delle persone che li hanno indossati. A questo proposito, Boltanski in un’intervista del 2017 dice: “Quell’abito è stato indossato da qualcuno che ora non c’è più, la sua presenza contribuisce a riattivare la memoria della persona che l’ha posseduto […]. Penso che alla base di ogni percorso artistico vi sia un trauma che l’artista cerca di superare durante la sua esistenza. Nel mio caso il trauma è stato ascoltare in tenera età le storie dei sopravvissuti alla Shoah”. Scarti dell’industria, scarti della Storia.

 

Dagli anni ottanta, dopo la smaterializzazione dell’Arte Concettuale, riappaiono correnti artistiche “neo-oggettuali” che rimettono al centro la realtà banale del quotidiano. Tony Cragg crea raffinatissime composizioni cromatiche e materiche con oggetti di plastica, vetro, legno raccolti durante le sue passeggiate nelle discariche e accostati per forma e gradazione di colore. Il rifiuto viene salvato dal suo destino di merce inutile e inutilizzabile e destinato a nuova vita e in questo processo acquista un nuovo significato.

Come lui sono tanti gli artisti che sul finire del secolo e oltre si dedicato al riuso degli oggetti comuni usciti dal proprio ciclo vitale, tanto che si profila una vera e propria corrente globale la Trash Art.

Le intenzionalità degli artisti che lavorano con i rifiuti sono diverse, così come i messaggi espressi: da quelli puramente formali e creativi del coreano Choi Jeong-hwa, a quelli ambientali dell’artista tedesco Ha Schult che trasporta e installa la sua armata di Trash Men (uomini spazzatura) in luoghi emblematici del pianeta come la Grande Muraglia Cinese e piazza del Popolo a Roma; fino agli scopi sociali e politici del brasiliano Vik Muniz che racconta nel video Waste Land (2010) la vita dei catadores (raccoglitori) nella discarica più grande del mondo quella di Jardim Gramacho a Rio de Janeiro.

L’arte è sempre riflesso della società che la produce. Il proliferare di sperimentazioni artistiche su e con i rifiuti apre interrogativi interessanti.

Fino a quando gli artisti sentiranno l’urgenza di mettere il rifiuto al centro del dibattito artistico e culturale? Fino a quando il rifiuto dovrà occupare lo spazio del museo, faticosamente conquistato dalle avanguardie storiche, per restare sotto lo sguardo attento del pubblico? Quello stesso sguardo che fugge dalle discariche e dalle aree urbane degradate?

 

Per approfondire The Art of Assemblage, MoMA, New York 1961; Lea Vergine, When Trash Becomes Art. Trash Rubbish Mongo, 2007; Transformers, MAXXI, Roma 2015.