Basta vendere armi ai Paesi in guerra

In Italia esiste una legge, la 185 del 1990, che dovrebbe impedire la vendita di armi a Paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Una legge all’avanguardia per l’epoca in cui fu approvata, trent’anni fa, ma che è stata progressivamente svuotata e sistematicamente aggirata, consentendo forniture militari ‘made in Italy’ utilizzate in conflitti armati, uccidendo anche civili. È successo anche recentemente in Yemen con le bombe vendute all’Arabia Saudita. Non deve succedere più! Non possiamo tollerare di avere le mani sporche di sangue! Lo hanno ribadito più volte Luigi Di Maio, il sottosegretario agli Esteri Manlio di Stefano e il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, ancora pochi giorni fa. È scritto anche, nero su bianco, nel contratto di governo tra le misure per contrastare alla radice le cause dei fenomeni migratori.

A prescindere dal caso specifico dello Yemen e dalla sospensione delle forniture militari all’Arabia Saudita, decisione eminentemente politica su cui dobbiamo ancora trovare una convergenza con la Lega, e proprio per evitare che questa materia rimanga ostaggio dalle dinamiche politiche del momento, abbiamo deciso che è ora di ristabilire nuovamente dei chiari paletti normativi per rende meno discrezionale le decisioni della politica, troppo spesso condizionate da interessi contingenti. Per questo ho depositato un disegno di legge che modifica l’attuale normativa rendendo più chiari e stringenti i criteri di individuazione dei Paesi a cui non possiamo vendere armi, eliminando le falle che fino a oggi hanno consentito di eludere ‘legalmente’ il divieto di legge.

Oggi, ad esempio, è possibile vendere armi italiane a un Paese coinvolto in un conflitto in presenza della semplice invocazione strumentale del principio di autodifesa (l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite), come avvenuto per l’intervento saudita in Yemen. Noi introduciamo la necessità di una esplicita autorizzazione del Consiglio di Sicurezza come criterio di legittimazione internazionale del conflitto, in modo da consentire la vendita di armi solo ai Paesi alleati che partecipano, magari insieme a noi, a operazioni internazionali di pace avallate dall’ONU.

Oggi, inoltre, è possibile vendere armi italiane a un Paese accusato da ONU e UE di gravi crimini di guerra o violazioni dei diritti umani se questi non vengono accertati con condanna formale contenuta in un documento vincolante, come una risoluzione, su cui è difficile se non impossibile raggiungere un consenso politico in tempi utili, come accade per i crimini sauditi in Yemen. Noi specifichiamo che per l’accertamento delle gravi violazioni bastano documenti non vincolanti di tutte le organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte, come i rapporti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani o le risoluzioni del Parlamento europeo.

Oggi, ancora, è possibile vendere armi italiane a un Paese in guerra o responsabile di gravi violazioni di diritti umani se con quel Paese è in vigore un accordo di cooperazione nel campo della difesa, bilaterale o nella cornice NATO. Un escamotage che un ex ministro della Difesa di nome Sergio Mattarella denunciò anni fa come “un regime privilegiato nelle procedure relative all’interscambio di armamenti” che comporta “un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185 del ’90”. Noi introduciamo la possibilità di sospendere temporaneamente le forniture di armi anche verso un Paese alleato con cui abbiamo stipulato accordi di questo tipo se questo, nel frattempo, è entrato in guerra o ha commesso gravi violazioni dei diritti umani.

Oggi, infine, è possibile vendere armi italiane a un Paese contrario alla regolamentazione internazionale del commercio di armi e alla lotta contro il loro traffico illecito, come lo sono molti Paesi africani, asiatici e mediorientali – tra cui l’Arabia Saudita. Noi introduciamo il divieto di vendere armi a Paesi che non hanno sottoscritto il lo storico Trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty – ATT) approvato a New York il 2 aprile 2013, salvo esplicita deroga deliberata dal Consiglio dei Ministri che se ne assume quindi la responsabilità politica.

In generale, introduciamo uno strumento semplice ma molto importante che garantirà una chiarezza inequivocabile e istantanea su quali siano i Paesi verso i quali l’export di armi italiane non è consentito o va sospeso in via temporanea: il Governo dovrà stilare e sottoporre al Parlamento una ‘lista nera’ aggiornata di Paesi che, per tutte le ragioni elencate, non possono essere clienti della nostra industria bellica.

Il mio disegno di legge introduce un’importante novità anche rispetto al tipo di armi soggette a controlli. Oggi è possibile vendere, senza nessuna limitazione, grandi quantitativi di armi comuni non militari – pistole e fucili anche semiautomatici – e relative munizioni, se non destinate a forze militari o di polizia, senza che queste ricadano tra i divieti della legge 185 del 1990. Noi inseriamo anche questo tipo di armi, le più usate in triangolazioni e traffici illeciti a vantaggio di gruppi armati e terroristici, tra i materiali soggetti al controllo della legge sulle esportazioni.

La legge che ho proposto prevede anche l’introduzione di un fondo per facilitare la riconversione dell’industria bellica verso il settore civile e ‘dual use’ e un impegno concreto per contrastare a livello internazionale traffici illeciti di armi e triangolazioni.

Il disegno di legge affida da un lato maggiori poteri di controllo e di indirizzo al Parlamento su questa materia, dall’altro rende più chiara la responsabilità politica del Governo reintroducendo il comitato interministeriale guidato dal Presidente del Consiglio che avrà l’ultima parola sulla vendita di armi.
Per evitare violazioni e raggiri dei divieti, il mio ddl prevede un nucleo interforze che dovrà controllare il rispetto della legge da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Siamo consapevoli che questo disegno di legge può essere ulteriormente migliorato in fase emendativa nel corso dell’esame da parte delle commissioni parlamentari competenti, e saremo quindi lieti di valutare tutti i suggerimenti che ci arriveranno sia dai militanti del Movimento 5 Stelle attraverso la piattaforma Lex Parlamento di Rousseau, sia dagli esperti del settore – industria e associazioni – che inviteremo presto a offrirci i loro fondamentali pareri in un ciclo di audizioni in Senato.