Come sta cambiando il mondo del lavoro

di Chiara Appendino

Qualche sera fa ho partecipato a un dibattito dal titolo “La crisi sembra non finire mai: quale futuro per il lavoro industriale a Torino?”, che si è tenuto durante la festa della FIOM di Torino. Peraltro in una settimana dove a far parlare di sé è stata la bellissima notizia del caso Ilva, un successo per molti lavoratori.

È l’occasione per parlare in maniera di un argomento delicato quale è il lavoro, specie per ciò che riguarda le attuali declinazioni che, proprio in forza della loro apparente ineluttabilità, destano legittime preoccupazioni.

Trasformazione del lavoro: un processo continuo
Le sfide per i sistemi nazionali sono un tema quanto mai attuale, legato indissolubilmente alle trasformazioni del settore produttivo, di quello dei servizi e più in generale dell’evoluzione delle società che, in un mondo globalizzato, sono perennemente soggette all’instabilità dei mercati, alla capacità di generare profitto, alla credibilità internazionale.

La globalizzazione ha contagiato inevitabilmente le scelte dei governi, costringendoli a riformulare le agende, innescando azioni volte a salvaguardare sia i bilanci, sia la tenuta stessa delle famiglie. Una delle questioni principali per il nostro Paese sono ahimè le cifre ancora a due zeri della disoccupazione giovanile. Scelte che debbono avere rispetto per le conquiste sociali e, al contempo assicurare competitività internazionale al nostro sistema produttivo e dei servizi. Stare al passo con tempi è riuscire a coniugare il welfare con la flessibilità.

Cambiamenti che partono dalle Città
Si stima che nel 2030 il 70% della popolazione vivrà nelle città. Le comunità urbane saranno dunque sempre più protagoniste nell’affrontare i cambiamenti e nel rispondere ai bisogni. Nel mio ruolo di sindaca di una città metropolitana che conta oltre due milioni di abitanti, sento forte il peso di questa responsabilità.

Le occasioni di investimenti produttivi e finanziari, la creazioni di ecosistemi favorevoli allo sviluppo dell’industria, il miglioramento della vita nelle aree più difficili operando anche attraverso la riqualificazione del contesto urbano – combinato con occasioni culturali e di sviluppo turistico – sono elementi costitutivi di iniziative volte ad amministrare con uno sguardo rivolto al futuro, in senso innovativo e concretamente sostenibile.

Il nostro vocabolario si è ormai arricchito di un neologismo: “glocal” che è la sintesi di globale e locale. Nell’attuale contesto bisogna pensare dunque in modo nuovo al ruolo che le città e i governi locali devono giocare per realizzare strategie di sviluppo che siano davvero efficaci e inclusive.

A tal proposito, la prima sfida che questi Governi si trovano a dover affrontare è proprio quella della modernità.

Lavoro: cosa succederà domani?

Siamo all’alba di una rivoluzione copernicana nel modo di intendere la produzione, il lavoro, i rapporti produttivi e, di conseguenza, di tutta la società. Proprio qualche giorno fa, insieme all’Assessora all’innovazione della Città di Torino, Paola Pisano, siamo state in visita ad un’azienda robotica che nel mese di marzo ha scelto di insediarsi qui a Torino.

In poco più di un’ora ci è stato data una dimostrazione di come la tecnologia stia mutando pressoché tutti i contesti di lavoro, anche quelli che fino a poco tempo fa erano considerati immuni dagli effetti che l’innovazione tecnologica porta con sé. Si pensi, ad esempio, alla cura della persona.

Ma questo è solo un esempio. Incontri e messaggi che affrontano questo tema ce ne sono a decine. Su tutti i fronti. Dai big data all’IoT, dalla robotica all’intelligenza artificiale, e così via. Sono i segnali di un grandissimo cambiamento che bussa alla porta, e non lo fa nemmeno troppo delicatamente.

È necessario essere estremamente lucidi circa quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Si stima che circa la metà degli studenti che oggi inizia il proprio ciclo di formazione scolastica farà lavori che oggi non esistono nemmeno.

La società di consulenza strategica Mc Kinsey ha evidenziato che il processo di automazione potrà riguardare il 45% delle attuali attività lavorative.

Come sindaca, quando parlo di questi temi – e in particolare di tecnologia e innovazione – ottengo nell’80% dei casi la stessa risposta: “la tecnologia toglie posti di lavoro”. Frase declinata in più modi a seconda di quale sia il settore impiegatizio dell’autore.

Sì, è vero. La tecnologia toglie posti di lavoro. È inutile nasconderci dietro a un dito. Questo significa che dobbiamo fermare la tecnologia? No. E anche se lo volessimo fare la vedrei piuttosto difficile. Quello che dobbiamo fare – e anche piuttosto in fretta – è individuare soluzioni concrete, reali, che siano attuabili a breve termine ma che guardino lontano. Se c’è una cosa che ho imparato è che quasi sempre non sono i cittadini a capire male. È chi comunica che non si è fatto capire.

Cosa fare?
Oggi abbiamo due tipi di urgenze come classe politica e come mondo della produzione in tutte le sue forme e le sue rappresentanze.

Guidare il cambiamento
La prima è quella prioritaria di individuare un modo per gestire questo cambiamento che – ormai è evidente a tutti – è ineluttabile.

Non si può fare con ricette vecchie. Servono idee nuove, servono giovani, servono persone (e personalità) che siano in grado di pensare per domani qualcosa che non è mai esistito prima.

In un testo di Jerry Kaplan, dal titolo provocatorio Le persone non servono – lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale, l’autore si interroga su quello che ci aspetta nel prossimo futuro, in maniera piuttosto disincantata.
Tra le prime evidenze che emergono e su cui bisogna focalizzarsi non c’è tanto la relazione tra la tecnologia e la perdita di posti di lavoro, bensì quella tra lo sviluppo tecnologico e il divario sempre più abissale tra ricchezza e povertà.

Un divario che visto in termini di numeri è impressionante. Nel 2017 le 8 persone più ricche del pianeta detenevano l’equivalente della ricchezza posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale. Stiamo parlando di 3,6 miliardi di persone.

Si pensi che questa settimana Amazon ha sfondato i mille miliardi di capitalizzazione. Prima di lei, pochi mesi fa, Apple ha fatto altrettanto.

C’è chiaramente un problema di redistribuzione del reddito.

Io non ho una soluzione in tasca ma mi permetto di dire che probabilmente stiamo guardando nella direzione sbagliata puntando il faro solo verso lo sviluppo tecnologico.

Probabilmente l’attenzione va posta altrove. Là dove la flessibilità non è una scelta ma una necessità. Dove il computer è un nemico a priori e non qualcosa di necessariamente subordinato alla volontà umana e dunque al suo servizio. Probabilmente dovremmo ripartire a considerare la povertà come causa, e non come sintomo. Motivo per cui, ribadisco ancora una volta, credo che il reddito di cittadinanza, nella sua natura redistributiva, sia una manovra urgente per questo Paese.

Comunicare, conoscere, comprendere
Il secondo punto, infine, è quello della percezione di questi fenomeni. Tutti noi siamo in qualche misura responsabili del cambiamento, ci piaccia o meno. E, in quanto responsabili, abbiamo il dovere di raccontarlo per quello che è. Come spesso accade, più si conosce ciò che si ha davanti e meno se ne ha paura, meno se ne ha paura e più facilmente lo si racconterà.

Quell’80% di commenti di cui sopra che vedono nel cambiamento la causa della loro condizione precaria – o di quella dei loro figli – esprime giudizi legittimi. Sta a noi dare tutti gli strumenti affinché siano il più possibile fondati.

Concludo ribadendo quanto ciò che sta per avvenire possa essere considerato un rischio o un’opportunità. Io credo in questa seconda opzione, ma credo anche che dipenda da noi. L’unica certezza che abbiamo è che questi cambiamenti porteranno un bisogno sempre maggiore di conoscenza, a tutti i livelli. Come ho sempre detto, l’istruzione e la formazione ancora una volta potranno essere le chiavi di volta del benessere.