#ProgrammaAffariCostituazionali – Titolo V: la definizione delle competenze fra Stato-Regioni e autonomie locali

Il tema del regionalismo è un punto centrale che investe i rapporti fra Stato, regioni e autonomie locali. La definizione e l’attribuzione delle relative competenze è stata sempre oggetto di discussione e di ricorsi alla Corte costituzionale. In questa sezione si valuta l’eventualità di una più netta divisione delle materie di competenza tra Stato e Regioni e sul possibile trasferimento, a queste ultime, e ai Comuni, di funzioni amministrative, anche attraverso una leva fiscale per incentivare la loro responsabilizzazione.

di Silvia Niccolai, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Cagliari

Quando si discute dei problemi del regionalismo in Italia, di come affrontarli, di quali politiche intraprendere, bisognerebbe sempre tenere presente qual è la finalità del regionalismo e dell’autonomia regionale e locale in Italia.
L’articolo 5 della Costituzione recita «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», questa era una scelta di cambiamento rispetto a un’impostazione centralistica dello Stato, considerata responsabile di non aver saputo valorizzare e equilibrare le grandi differenze di storia e vocazione tra i nostri territori. Vi era quindi l’aspirazione a una democrazia più compiuta, partecipata, pluralista, responsabile, che però veniva affidata a un ente nuovo – la Regione – che non aveva dalla sua parte quella legittimazione, quella forza che viene dalla storia dal radicamento. Di questo problema le Regioni hanno continuato a risentire e, forse, ne risentono ancora oggi. È avvertito il problema della rappresentanza politica regionale, ovvero la necessità di una rappresentanza che, senza cadere nel particolarismo e nel localismo, sia capace di mostrare autonomia rispetto alle logiche delle relazioni tra i partiti a livello centrale e riuscire ad essere espressione di pluralismo.

Nei fatti il regionalismo, in Italia, è stato un capitolo tra i più controversi e contraddittori della nostra intera storia dell’organizzazione pubblica, che ha contemplato delusioni e fallimenti. Si tratta, quindi, di un tema che andrebbe sempre affrontato in maniera circostanziata, molto specifica. Tuttavia per inquadrare i quesiti intorno ai quali ragioniamo, si deve anzitutto ricordare che le vicende delle regioni e degli enti locali hanno sempre rappresentato un riflesso di quello che accade a livello politico, economico e sociale nello Stato, e anche in Europa. Il modello di regionalismo introdotto dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 è stato molto criticato per l’ampiezza delle materie, e per il fatto che queste non sono state ben delimitate: in effetti le competenze dello Stato e delle regioni sono inevitabilmente intrecciate e questo ha provocato anche a una forte conflittualità. Dal 2001 ad oggi sono, inoltre, accaduti molti fatti rilevanti che hanno avuto grandi ricadute sul rapporto tra lo Stato e le autonomie. Anzitutto, in questi anni, è ritornata costantemente l’idea di una ulteriore riforma della Parte seconda della Costituzione, nel 2006, quindi pochi anni dopo l’introduzione del nuovo Titolo V e, successivamente, da ultimo lo scorso anno con la vicenda culminata nel referendum del 2016. Un quadro di instabilità politica che non ha giovato alla effettività del titolo V e al tentativo di attuarlo nel modo migliore. Inoltre, fra questi due tentativi di riforma, c’è stata la grande crisi finanziaria del 2008: questa purtroppo è stata la vera e propria riforma del Titolo V, che ha riportato molto potere decisionale al centro, perché in nome del coordinamento della finanza pubblica, della eccezionalità, della sperabile transitorietà della crisi economica, lo Stato centrale e, in particolare, il Governo hanno emanato molte norme specifiche sul personale, sulla organizzazione dei servizi dipendenti dalle regioni, sulla stessa composizione degli organi politici regionali, determinando una nuova centralizzazione.

C’è stata anche la fondamentale riforma dell’articolo 81 della Costituzione nel 2012
, con l’introduzione del pareggio di bilancio, che ha avuto effetti evidenti di restrizione delle politiche degli enti locali; in tutto questo la riforma del sistema tributario che doveva andare nel senso di realizzare l’autonomia finanziaria di regioni e enti locali è rimasta travolta e non è mai stata implementata in modo convincente. Infine occorre rilevare come gli ultimi anni si siano caratterizzati per una profonda crisi del funzionamento della vita politica e delle relazioni tra le istituzioni centrali Parlamento e Governo: sono gli anni in cui ha dominato il ricorso al decreto legge e in cui è collassata la procedura parlamentare, in cui la dialettica politica e il confronto politico hanno visto restringersi molto i loro spazi.

Questo ha importanza per le regioni? Sì, perché se leggi si fanno rapidamente per rispondere a una emergenza continua, le relazioni Stato e autonomie soffrono, perché queste si incentrano invece sull’idea opposta per la quale lo Stato, con le proprie leggi, dovrebbe dettare i principi fondamentali negli ambiti di intervento. Quindi in riferimento alle grandi scelte di fondo sulle singole materie, che sono altrettanti capitoli importanti della nostra convivenza, (ad esempio la salute e i trasporti) e, in questo quadro, di competenza dello Stato, ma condiviso, le Regioni dovrebbero articolare le loro politiche con le loro leggi regionali. Invece è mancato il livello dalla condivisione ampia delle scelte, ma è anche accaduto che, nonostante il Titolo V avesse molto rafforzato il ruolo politico delle Regioni, per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato e le regioni, si è continuato a ricorrere agli strumenti che venivano applicati prima, cioè alle cosiddette “conferenze”, la Conferenza Stato Regioni nata nel 1988 per esempio, in cui si riuniscono gli esecutivi, il Governo statale e i Governi regionali i quali sono organi politici molto importanti, ma sono espressione delle sole maggioranze.

In altri termini dall’attuazione del titolo V sono rimasti tagliati fuori il Parlamento e i Consigli regionali, cioè gli organi in cui sono rappresentate anche le minoranze, ed è inevitabile , che in questo quadro, in cui le scelte normative sono prese a colpi di maggioranza sotto la pressione dell’ emergenza economica, accade che un po’ alla volta si viene a definire un diverso tipo di Stato: cambia la sanità, cambiano i trasporti, cambiano i servizi di cui usufruiamo, ma non per effetto di scelte che sono apertamente condivise nel dibattito politico ampio e tendono ad apparire necessitate in nome del risparmio. Una esigenza, quella del risparmio, molto importante, ma va sempre bilanciata con domande politiche come quella di equilibrio tra il contenimento della spesa pubblica e i diritti fondamentali come quello alla salute, o quelle derivanti dalla diversità dei territori.

Domande a cui non corrisponde un altrettanto grande discussione pubblica nel nostro Paese, per esempio sulla sanità che vogliamo e possiamo avere, perché manca il discorso politico intorno ai principi fondamentali che dovrebbero ispirare questi grandi servizi.

Date queste coordinate diciamo ampie, ma in qualche modo necessarie, perché il tema del regionalismo ha molte connessioni con tutta la nostra esperienza nazionale, per illustrare i quesiti partirei evidenziando che oggi la questione non sia tanto rivedere la Costituzione, ma ritoccare l’elenco delle materie regionali. Si potrebbe discutere molto intorno alle materie e valutare se sono proporzionate per esempio alle capacità delle regioni: pensiamo al governo del territorio, è una funzione appropriata per le regioni oppure esorbita dalle loro capacità? D’altro canto ci si potrebbe anche chiedere se sarebbe desiderabile uno scenario in cui il governo del territorio è tutto deciso dall’alto e non hanno voce le comunità che vi vivono, come accadrebbe in un quadro di ricentralizzazione. Ma, in realtà, i veri problemi non riguardano questo aspetto ma sorgono quando ciascuno degli attori non esercita le sue funzioni in una maniera appropriata, e ciò che io trovo più temibile, è uno Stato che interviene senza un quadro di riferimenti prestabilito e una Regione che o è prona al Governo centrale oppure fa un’opposizione strumentale, perché da qui in poi vengono i grandi nodi che poi ricadono sulla cittadinanza.

Ritengo pertanto che più che andare a lavorare sulla revisione delle materie, sulla riscrittura delle competenze regionali, si potrebbe portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla centralità del compito che la legislazione statale ha nelle materie concorrenti, il compito di individuare i principi fondamentali che delimitano di periodo in periodo ma, comunque, con una certa stabilità ed efficienza gli obiettivi della nostra convivenza. Quella di dettare i principi fondamentali è una funzione complessa e non ignoro che, anche nel quadro previgente, ha rappresentato un enorme problema. Tuttavia è una questione da porre agli organi statali che si misurano con questo compito che la Costituzione assegna loro: quello di individuare ed esprimere con legge scelte orientative che rendano espliciti i fini dell’azione statale i suoi obiettivi e che incornicino l’azione dello Stato nei confronti delle regioni.

Diciamo, per concludere, che l’articolo 5 della Costituzione dice una cosa molto importante che è rimasta sempre inattuata, ovvero che lo Stato adegua i contenuti e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento amministrativo. Adeguamento della legislazione significa adeguamento dello Stato, dei suoi organi, dei gangli fondamentali, di chi li fa funzionare concretamente, a modalità capaci di valorizzare le autonomie e di responsabilizzarle.
Prendendo sul serio questo tipo di mandato che la Costituzione rivolge allo stato centrale, potrebbero venire anche le risposte più corrette ai due grandi interrogativi che i quesiti che saranno sottoposti al voto individuano, ovvero anzitutto la corretta allocazione delle funzioni amministrative a livello locale, che certamente è una soluzione auspicabile e del resto già disegnata in Costituzione. Che tuttavia richiede scelte politiche, grande sapienza e cura perché implica la difficile individuazione del livello territoriale adeguato alla funzione amministrativa di volta in volta considerata. E, successivamente, un’attenta riflessione sui principi fondamentali è necessaria per mettere in pratica un sistema tributario locale fondato sul principio “vedo, pago, voto“, fondamentale per la responsabilità dei governanti davanti ai governati e per un corretto esercizio della cittadinanza a cui si riferisce appunto il secondo quesito, in cui si chiede di esprimersi nel senso di una maggiore autonomia nella responsabilità dell’ente locale.
Sono principi certamente indispensabili per un corretto rapporto tra governanti e governati a tutti i livelli e possono esistere soltanto in un quadro in cui un questo corretto rapporto sia ampiamente articolato, già nel momento dell’esercizio delle funzioni statali, perché una buona attuazione del regionalismo comincia certamente dal centro e, cioè, da un impegno per la qualità della legislazione e del confronto politico nella nazione.